lunedì 9 dicembre 2013

La Doccia - capitolo 1


Questo è uno dei primi racconti che abbia mai scritto, è purtroppo rimasto incompiuto per diversi anni e credo che meriti di vedere la luce del web. Mi auguro che vi piaccia, buona doccia a tutti!




Fu in una notte di quegli inverni nebbiosi e bui tipici del nord, uno di quelli in cui il gelo sembra volerti congelare anche la merda che porti dentro, che incontrai per la prima volta la doccia. Ero di ritorno da una festicciola a casa di amici, tipica serata dalle tante promesse dimenticate con l’alcool, e mi stavo dirigendo verso l’auto, parcheggiata a due isolati dal luogo della festa perché in queste sere la gente tende a non uscire, e di conseguenza lascia la macchina esattamente al suo parcheggio sotto casa. La serata era stata totalmente deludente: mesi prima ero stato mollato e contavo in quella serata perché cambiasse qualcosa, qualunque cosa. Tornando alla macchina mi resi conto che non era cambiato niente, la mia vita era esattamente quella insulsa di prima. I soliti amici con i quali, dopotutto, non mi trovavo poi così bene, i soliti discorsi e le solite serate. Nulla era cambiato. Ma tutto stava per cambiare da lì a poco, senza che ne fossi consapevole. Per la via notai quella che a prima vista sembrava una comune cabina telefonica, fatto che nella mia mente annebbiata dall’alcool non ricevette, sulle prime, l’immeritata attenzione che si dedica a cose o fatti fuori dell’ordinario: le cabine telefoniche non esistevano più da anni. Mentre mi ci avvicinavo tuttavia essa solleticò la mia curiosità, come un buon libro in uno scaffale dimenticato, e trovatomi di fronte ad essa realizzai che non era nulla di simile, per utilizzo, ad una cabina telefonica: il folle risultato che mi fulminò la mente fu che quella era, almeno in apparenza, una doccia. Una doccia in tutto e per tutto: non mancava lo sportello della cabina, in vetro opaco per mantenere la privacy del fortunato docciatore, come se quando ci si trova lì sotto qualcuno abbia l’idea, o la possibilità, di trovarcisi davanti; non mancava un pratico doccino, dallo stile moderno e al contempo elegante e raffinato, forse sintomo della ricerca di bellezza ed arte anche negli oggetti più comuni e deleteri; non mancavano neanche tutti gli ingredienti necessari ad una doccia come dio comanda, ossia docciaschiuma, shampoo, creme dall’odore intenso e profumato, ma dal sapore tutt’altro che gradevole, un inganno in piena regola dell’uomo moderno, il tutto corredato da una grande spugna gialla, morbida da una parte e ruvida dall’altra. Uno dei tanti particolari che la differenziava da una cabina telefonica, o da un elefante,  era l’assenza di un pannello sulla parte superiore, atto a chiudere perfettamente la struttura e renderla un blocco unico: come tutte le docce che ho visto in vita mia era aperta sul di sopra, in modo da permettere ad un raggio divino di raggiungerti anche sotto la doccia. Insomma, era una doccia in tutto e per tutto. Pensando che fosse una di quelle strane opere d’arte contemporanee, come quel tizio che ha preso un cesso e l’ha trasformato in arte, mi guardai intorno in cerca di qualche prova a sostegno della mia teoria, qualche targa esplicativa (certo, altrimenti non avrei potuto constatare che si trattava di arte, bensì di una stramaledetta doccia), un nome, un titolo a quella che era già diventata la mia opera artistica preferita. Non ne trovai. Manco l’ombra. Tutto ciò che vidi fu un pacchetto di sigarette vuoto e accartocciato, come se il maleducato fumatore avesse voluto disprezzare il vizio che ogni minuto lo disprezza, una merda di cane che ringraziai il cielo di non aver pestato e un gratta e vinci già grattato e vissuto. L’ipotesi dell’opera d’arte era perciò da escludere. Peccato, sarebbe stata un’opera artistica che avrei davvero amato ed apprezzato, invece era solo una doccia. Seriamente intenzionato a venire a capo di quella che ormai consideravo un’indagine personale, forse a causa del vino o della noia, mi ritrovai ad aprire lo sportello di accesso e provare ad aprire l’acqua, per vedere cosa sarebbe successo. Un potente getto di acqua gelata mi investì il braccio prima che facessi in tempo a ritrarlo, e bagnò il mio cappotto firmato nuovo nuovo. Imprecai. È assurdo in effetti che ormai siamo noi a proteggere ciò che dovrebbe  proteggere noi, ossia i nostri vestiti, le nostre scarpe, i nostri cappelli e i nostri guanti. Spesso ho preferito congelarmi le mani fino a non sentirle più, piuttosto che rischiare di farci cadere la cenere sopra fumando. Pensando ciò mi accesi una sigaretta, giusto per poter fare qualcosa per i prossimi tre minuti, e lasciai scorrere l’acqua. Fumai quella sigaretta non vedendo l’ora di finirla, di poter tornare a vivere e a fare qualcosa, non volevo assaporare quei tre minuti di pausa da tutto concedendoli all’uccidermi lentamente. Finita l’ennesima sigaretta della noia, mi tolsi il giubbotto, posandolo in una panchina lì a fianco, e provai ad immergere il mio braccio scoperto e vulnerabile sotto il getto d’acqua. Stavolta fui molto più rapido a ritrarlo, perché l’acqua era diventata bollente e la cabina della doccia era ormai di proprietà di un denso vapore, che non l’avrebbe ceduta certo con le buone. Passai due minuti interi col dolore padrone della mia mente, a cercare sollievo tra quel poco di neve ghiacciata che ancora resisteva stoica ai lati del marciapiede, accantonata lì come un cane fedele che è piacevole a guardarsi e da avere intorno ma che deve stare al suo posto. Ah, dimenticavo, immagino che questo sia il momento della narrazione in cui tramite un espediente debba rivelarvi il mio nome, che so, facendolo dire da qualcuno che mi chiama oppure rivelandolo io stesso. Sappiate che non lo farò. Nessuno dirà il mio nome in questa storia, le persone non dichiarano il mio nome e cognome quando mi parlano, lo sappiamo già entrambi chi sono. Inoltre questa storia la sto raccontando io, e siccome generalmente non mi chiamo da solo, sapere il mio nome non vi serve a un accidente. La gente è troppo ossessionata da un nome, da una definizione, come se debba saperne il nome per sapere cosa sia il cielo, il mare, il freddo. Freddo che ormai divorava la parte migliore di me e piano piano arrivava alle viscere, alle ossa, alle parti che non vogliamo far sapere che ci sono ma che sono lì, e non sono meno caratteristiche di me di quanto lo siano il colore dei miei occhi o le vene sul dorso delle mie mani. In quel momento la mia mente congelata e annebbiata partorì un’idea che potrei definire folle, insana. Così regolai il calore dell’acqua, rendendola sì molto calda ma sopportabile, uno di quei calori che ti fa sentire protetto, e senza togliermi le scarpe entrai nella doccia e chiusi lo sportello alle mie spalle. Subito le mie mani congelate urlarono di dolore, come neve buttata sulla stufa, non abituate a temperature superiori allo zero, tanto che dovetti abbassare di un poco la temperatura per diventare di nuovo padrone e non sottomesso delle mie mani. Piano piano mi abituai e alzai la temperatura, finché non fu un piacere unico essere lì sotto, piacere che non necessita di una squadra di calcio o di una donna bensì solo di sé stesso. Nel frattempo i miei vestiti completamente zuppi erano diventati pesanti, così complice la piacevole temperatura della cabina mi spogliai completamente e li lanciai fuori dalla cabina, sperando di nuovo di mancare la merda di cane. Qualcosa mi disse che la centrai in pieno. Nonostante fossi completamente nudo all’aperto, in pieno inverno, con una temperatura che accarezzava i primi gradi al di sotto dello zero come un anima gemella ritrovata, in quella doccia stavo benissimo. Finché restavo nello stretto cono di acqua bollente che fuoriusciva dal doccino era come essere in una piacevole e rilassante sauna, o sotto il sole vendicativo di agosto. Il freddo esterno era improvvisamente diventato una realtà lontana e separata, tanto che in quel momento non riuscì nemmeno più a ricordare effettivamente come sia provare freddo. 

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