Questo è uno dei primi racconti che abbia mai scritto, è purtroppo rimasto incompiuto per diversi anni e credo che meriti di vedere la luce del web. Mi auguro che vi piaccia, buona doccia a tutti!
Fu in una notte di
quegli inverni nebbiosi e bui tipici del nord, uno di quelli in cui il gelo
sembra volerti congelare anche la merda che porti dentro, che incontrai per la
prima volta la doccia. Ero di ritorno da una festicciola a casa di amici,
tipica serata dalle tante promesse dimenticate con l’alcool, e mi stavo
dirigendo verso l’auto, parcheggiata a due isolati dal luogo della festa perché
in queste sere la gente tende a non uscire, e di conseguenza lascia la macchina
esattamente al suo parcheggio sotto casa. La serata era stata totalmente
deludente: mesi prima ero stato mollato e contavo in quella serata perché
cambiasse qualcosa, qualunque cosa. Tornando alla macchina mi resi conto che
non era cambiato niente, la mia vita era esattamente quella insulsa di prima. I
soliti amici con i quali, dopotutto, non mi trovavo poi così bene, i soliti
discorsi e le solite serate. Nulla era cambiato. Ma tutto stava per cambiare da
lì a poco, senza che ne fossi consapevole. Per la via notai quella che a prima
vista sembrava una comune cabina telefonica, fatto che nella mia mente
annebbiata dall’alcool non ricevette, sulle prime, l’immeritata attenzione che
si dedica a cose o fatti fuori dell’ordinario: le cabine telefoniche non
esistevano più da anni. Mentre mi ci avvicinavo tuttavia essa solleticò la mia
curiosità, come un buon libro in uno scaffale dimenticato, e trovatomi di
fronte ad essa realizzai che non era nulla di simile, per utilizzo, ad una
cabina telefonica: il folle risultato che mi fulminò la mente fu che quella
era, almeno in apparenza, una doccia. Una doccia in tutto e per tutto: non
mancava lo sportello della cabina, in vetro opaco per mantenere la privacy del
fortunato docciatore, come se quando ci si trova lì sotto qualcuno abbia
l’idea, o la possibilità, di trovarcisi davanti; non mancava un pratico
doccino, dallo stile moderno e al contempo elegante e raffinato, forse sintomo
della ricerca di bellezza ed arte anche negli oggetti più comuni e deleteri;
non mancavano neanche tutti gli ingredienti necessari ad una doccia come dio
comanda, ossia docciaschiuma, shampoo, creme dall’odore intenso e profumato, ma
dal sapore tutt’altro che gradevole, un inganno in piena regola dell’uomo
moderno, il tutto corredato da una grande spugna gialla, morbida da una parte e
ruvida dall’altra. Uno dei tanti particolari che la differenziava da una cabina
telefonica, o da un elefante, era
l’assenza di un pannello sulla parte superiore, atto a chiudere perfettamente
la struttura e renderla un blocco unico: come tutte le docce che ho visto in
vita mia era aperta sul di sopra, in modo da permettere ad un raggio divino di
raggiungerti anche sotto la doccia. Insomma, era una doccia in tutto e per
tutto. Pensando che fosse una di quelle strane opere d’arte contemporanee, come
quel tizio che ha preso un cesso e l’ha trasformato in arte, mi guardai intorno
in cerca di qualche prova a sostegno della mia teoria, qualche targa
esplicativa (certo, altrimenti non avrei potuto constatare che si trattava di
arte, bensì di una stramaledetta doccia), un nome, un titolo a quella che era
già diventata la mia opera artistica preferita. Non ne trovai. Manco l’ombra.
Tutto ciò che vidi fu un pacchetto di sigarette vuoto e accartocciato, come se
il maleducato fumatore avesse voluto disprezzare il vizio che ogni minuto lo
disprezza, una merda di cane che ringraziai il cielo di non aver pestato e un
gratta e vinci già grattato e vissuto. L’ipotesi dell’opera d’arte era perciò
da escludere. Peccato, sarebbe stata un’opera artistica che avrei davvero amato
ed apprezzato, invece era solo una doccia. Seriamente intenzionato a venire a
capo di quella che ormai consideravo un’indagine personale, forse a causa del
vino o della noia, mi ritrovai ad aprire lo sportello di accesso e provare ad
aprire l’acqua, per vedere cosa sarebbe successo. Un potente getto di acqua
gelata mi investì il braccio prima che facessi in tempo a ritrarlo, e bagnò il
mio cappotto firmato nuovo nuovo. Imprecai. È assurdo in effetti che ormai
siamo noi a proteggere ciò che dovrebbe proteggere noi, ossia i nostri vestiti, le
nostre scarpe, i nostri cappelli e i nostri guanti. Spesso ho preferito
congelarmi le mani fino a non sentirle più, piuttosto che rischiare di farci
cadere la cenere sopra fumando. Pensando ciò mi accesi una sigaretta, giusto
per poter fare qualcosa per i prossimi tre minuti, e lasciai scorrere l’acqua.
Fumai quella sigaretta non vedendo l’ora di finirla, di poter tornare a vivere
e a fare qualcosa, non volevo assaporare quei tre minuti di pausa da tutto
concedendoli all’uccidermi lentamente. Finita l’ennesima sigaretta della noia,
mi tolsi il giubbotto, posandolo in una panchina lì a fianco, e provai ad
immergere il mio braccio scoperto e vulnerabile sotto il getto d’acqua. Stavolta
fui molto più rapido a ritrarlo, perché l’acqua era diventata bollente e la
cabina della doccia era ormai di proprietà di un denso vapore, che non
l’avrebbe ceduta certo con le buone. Passai due minuti interi col dolore
padrone della mia mente, a cercare sollievo tra quel poco di neve ghiacciata
che ancora resisteva stoica ai lati del marciapiede, accantonata lì come un
cane fedele che è piacevole a guardarsi e da avere intorno ma che deve stare al
suo posto. Ah, dimenticavo, immagino che questo sia il momento della narrazione
in cui tramite un espediente debba rivelarvi il mio nome, che so, facendolo
dire da qualcuno che mi chiama oppure rivelandolo io stesso. Sappiate che non
lo farò. Nessuno dirà il mio nome in questa storia, le persone non dichiarano
il mio nome e cognome quando mi parlano, lo sappiamo già entrambi chi sono.
Inoltre questa storia la sto raccontando io, e siccome generalmente non mi
chiamo da solo, sapere il mio nome non vi serve a un accidente. La gente è
troppo ossessionata da un nome, da una definizione, come se debba saperne il
nome per sapere cosa sia il cielo, il mare, il freddo. Freddo che ormai
divorava la parte migliore di me e piano piano arrivava alle viscere, alle
ossa, alle parti che non vogliamo far sapere che ci sono ma che sono lì, e non
sono meno caratteristiche di me di quanto lo siano il colore dei miei occhi o
le vene sul dorso delle mie mani. In quel momento la mia mente congelata e annebbiata
partorì un’idea che potrei definire folle, insana. Così regolai il calore
dell’acqua, rendendola sì molto calda ma sopportabile, uno di quei calori che
ti fa sentire protetto, e senza togliermi le scarpe entrai nella doccia e
chiusi lo sportello alle mie spalle. Subito le mie mani congelate urlarono di
dolore, come neve buttata sulla stufa, non abituate a temperature superiori
allo zero, tanto che dovetti abbassare di un poco la temperatura per diventare
di nuovo padrone e non sottomesso delle mie mani. Piano piano mi abituai e
alzai la temperatura, finché non fu un piacere unico essere lì sotto, piacere
che non necessita di una squadra di calcio o di una donna bensì solo di sé
stesso. Nel frattempo i miei vestiti completamente zuppi erano diventati pesanti,
così complice la piacevole temperatura della cabina mi spogliai completamente e
li lanciai fuori dalla cabina, sperando di nuovo di mancare la merda di cane.
Qualcosa mi disse che la centrai in pieno. Nonostante fossi completamente nudo
all’aperto, in pieno inverno, con una temperatura che accarezzava i primi gradi
al di sotto dello zero come un anima gemella ritrovata, in quella doccia stavo
benissimo. Finché restavo nello stretto cono di acqua bollente che fuoriusciva
dal doccino era come essere in una piacevole e rilassante sauna, o sotto il
sole vendicativo di agosto. Il freddo esterno era improvvisamente diventato una
realtà lontana e separata, tanto che in quel momento non riuscì nemmeno più a
ricordare effettivamente come sia provare freddo.
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