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Dopo aver tracannato avidamente la prima delle due pinte di
birra scura e torbida, l'uomo rimane a lungo a fissarmi pensieroso, come ad
imprimere nella memoria ogni piccolo particolare della mia persona. Poi,
sospirando, allunga la mano e mormora, con voce impastata dall'alcool:
"innanzitutto credo sia buona etichetta che io mi presenti. Mi chiamo
Jacques Fabre, mozzo. Il piacere, temo, non è né mio né tuo". Gli stringo timidamente
la mano vergognandomi di quanto sia più grossa e forte della mia, sebbene la
sua stretta sia flebile e debole come il batter d'ali di una falena morente, riflesso
forse del suo animo spento. Inizio a sorseggiare lentamente la mia birra, fa
davvero schifo. Avevo bisogno di qualcosa di caldo, ma non era certo quello che
intendevo. Non c'è niente di peggio di una birra calda: è la perdita di ogni
tipo di civiltà e cultura, di ogni valore morale, peggio del cannibalismo e
dell'anarchia. Un nuovo sorso di birra e la lingua di Jacques si sguinzaglia come
un cane affamato di parole, e, soprattutto, di attenzione. "Vedi, ragazzo
mio, quando ero giovane ero mozzo nella barca di un pescatore del paese, un
vecchio ubriacone che chiamavamo ironicamente "capitano Achab". Il
suo vero nome non lo ricordava nessuno, giravano voci che perfino sua moglie lo
chiamasse così. Pescavamo tutto quello che riuscivamo a pescare, non eravamo
certo razzisti quando si trattava di mangiare. A quei tempi conobbi quello che
sarebbe diventato il mio più caro amico, Philippe Roux. Lavorava come me nel
peschereccio del "capitano Achab", ma ben presto, insoddisfatto e
stanco delle angherie del capitano, mandò lui e tutti i pesci dell'atlantico al
diavolo per dedicarsi alla sua vocazione, la contabilità. Molti di noi, me
compreso, ritenevano fosse una vocazione squallida e triste, che razza di
piacere si poteva trovare nei conti? Poi vedemmo la sua espressione quando
chiudeva un bilancio e i conti quadravano, o quando un suo collega gli chiedeva
una mano, e allora lui sembrava un'altra persona, fiera e solenne come
l'oceano, e allora capimmo, e lo rispettammo. Fu qualche mese dopo che incontrò
quel demonio. Ci eravamo persi un po' di vista, come è facile quando si
prendono strade così divergenti, ma eravamo sempre ottimi amici, appena
potevamo ci facevamo una birra insieme e mi raccontava di mondi aldilà della
mia concezione, dove ogni cosa è un'idea, un numero, e tutto sembra irreale.
Quello era il suo mondo, ed io ero forse l'unico a cui permetteva di entrarci.
La gente spesso equivocava la nostra amicizia, voci maligne e di scherno
circolavano di bocca in bocca come un virus, ma non ci ho mai dato peso. In
questo paese la gente trova sempre qualcosa su cui ricamare e mormorare, e se
non lo trova, lo inventa. Tuttavia, col tempo, continuammo lentamente ma
inesorabilmente a perderci di vista. Ci vedevamo sempre meno, e quando
succedeva non era più come una volta, ci limitavamo a parlare del più e del
meno, non entravo più nel suo mondo dei numeri. Finché non ci vedemmo più. Naturalmente
ne ero dispiaciuto, ma sembrava che comunque lui stesse bene, perciò non me ne
preoccupai molto. Non potevo nemmeno immaginare che razza di incubo era
diventata la sua vita. Lo scoprì solo quando era ormai troppo tardi, e non
potrò mai perdonarmelo. Ciò che ti racconterò ora è solo una ricostruzione, nessuno
sa precisamente ciò che successe realmente, soprattutto alla fine. Tuttavia voglio
che ascolti attentamente, ti sembrerà assurdo ma devo metterti in
guardia." Detto ciò, dopo aver parlato a lungo, bevve in un sorso la seconda
pinta, come se avesse bisogno di carburante per continuare ad andare avanti. Un
giovane si avvicina al tavolo e mi fissa con occhi increduli, fa per dire qualcosa
ma Jacques lo zittisce subito con un brusco gesto della mano, e il giovane
torna da dove era venuto. Guardandomi intorno noto che ognuno dei presenti mi
lancia occhiate furtive, nei loro occhi scorgo una paura ancestrale, antica
come l'uomo. Scolata ingordamente l'ultima pinta, l'uomo si asciuga con la manica
la folta barba grigia, ingiallita a tratti dal fumo, e inizia a raccontare.
"Tutto quello che ti racconto, come ti dicevo, è solo una ricostruzione a posteriori,
l'unica testimonianza di ciò che accadde sono gli scritti paranoici di Phil,
che tenne un diario della piega assurda che prese la sua vita. Tutto iniziò un
giorno di primavera, quando ogni cosa tende a rinascere, compreso il male. Una
sera, rincasando tardi da una serata di bisboccia al bar, lo vide. Viveva in
uno di quei piccoli condomini alla periferia del paese, all'epoca appena costruito,
e per entrare nel suo appartamento doveva aprire tre porte: il cancello
esterno, quello interno, e infine la porta di casa. Aprendo il primo cancello,
che dava accesso ad un piccolo cortile antistante l'edificio, lo trovò stranamente
aperto. Non che ci fossero delinquenza o episodi di furto, ma quel cancello era
sempre chiuso. Sempre. Tranne quella notte. Non ci fece molto caso sul momento,
dopotutto era bello sbronzo, tanto che probabilmente non avrebbe notato nulla
di strano nemmeno se avesse trovato il palazzo raso al suolo. Entrando lo vide,
dicevo, un gentiluomo sulla settantina, che indossava un elegante frac nero
sotto un lungo soprabito, con tanto di bombetta e bastone da passeggio. Lo stesso
che hai visto tu stanotte. Sulle prime si spaventò per quell'incontro, cosa
diavolo poteva starci lì a fare quel tizio stravagante, in piena notte? Tuttavia,
i suoi modi impeccabili e la sua squisita gentilezza lo rassicurarono, così
dopo aver scambiato qualche convenevole sul tempo e l'andamento dell'economia,
cosa che a Phil stava molto a cuore, gli augurò una buonanotte e si congedò.
Andò avanti così per diversi giorni, ogni notte trovava il cancello aperto e il
gentiluomo all'interno. Qualche volta, scrisse nel diario, cercò di parlarne
coi vicini, ma tutti giuravano di non aver sentito né visto nessuno, chiunque
fosse quell'uomo si mostrava solo a lui. Fosse stato chiunque altro avrebbe
chiamato la polizia, ma sentiva di non riuscire a cacciare in alcun modo quel
gentiluomo così squisitamente cortese. Era come se, ammaliato da qualche
stregoneria, non potesse muovergli alcun tipo di violenza o scortesia. Così non
fece nulla. Dopo qualche giorno, tuttavia, finalmente trovò il cancello chiuso,
ed il misterioso estraneo sparito. Si sentì stranamente sollevato, finché non
giunse al secondo cancello, di accesso all'atrio e alle scale. Lo trovò aperto.
Entrando terrorizzato trovò il gentiluomo che se ne stava lì al buio e per poco
non gli prese un colpo. Lui, notando il suo spavento, se ne preoccupò subito,
rassicurandolo con fare affabile di non essere un brigante da quattro soldi. In
effetti non lo è, qualunque cosa sia si tratta di qualcosa di ben più terribile
e pericoloso. Anche questa situazione durò qualche giorno, e fu in quel periodo
che il mio amico iniziò a isolarsi da tutto e da tutti, come un elefante che si
allontana dal branco quando sente che la morte gli è vicina. Iniziò a bere
molto di più delle solite due pinte con gli amici, ossessionato da quell'uomo
che, comunque, non era in grado di cacciare, e che si mostrava esclusivamente a
lui. Una sera era così ubriaco che il gentiluomo dovette aiutarlo a salire le
scale. Non ne parlò con nessuno, nemmeno con me, e fu in quei giorni che iniziò
il diario di quei strani fatti. La sua paranoia aumentava di giorno in giorno,
a volte non voleva nemmeno tornare a casa e passava la notte su qualche
panchina. Al lavoro iniziarono a preoccuparsi del suo stato di salute, stanco e
incolto com'era, come una bestia selvatica. Finché, una notte, trovò anche il
secondo cancello chiuso, e l'uomo sparito. Salendo le scale e arrivando alla
porta del suo appartamento la trovò aperta. Sentì, a quella scoperta, come se
la falce della morte fosse puntata al suo collo, pronta a decapitarlo. I primi
due cancelli potevano essere stati dimenticati aperti da qualche inquilino
sbadato, ma quella no, era certo di averla chiusa. E tale doveva rimanere.
Esaminando la serratura non trovò alcun segno di forzatura o manomissione,
funzionava perfettamente, era come se qualcuno avesse accesso al suo mondo metafisico
delle idee e dei numero, e in quel mondo avesse manomesso l'idea della sua
serratura. Era sempre la solita serratura, perfettamente funzionante, e al
contempo non lo era più. Come se avesse cancellato la sua qualità di essere una
serratura e l'avesse resa solo un pezzo inutile di ferro. Una serratura
annichilita, umiliata e imbrogliata. Tale sembrava essere il potere del gentiluomo.
Da quel momento in poi sappiamo ben poco di ciò che ha vissuto. Pare che in casa
non ci fu traccia del misterioso gentiluomo, o piuttosto di quel terribile
demonio quale si rivelò. Phil visse gli ultimi giorni nel terrore più assoluto,
senza più uscire di casa, conscio che ogni minima distrazione sarebbe potuta
essere fatale. Non dormiva e non mangiava, non desiderando altro che quell'uomo
fosse venuto e l'incubo avesse fine. Le ultime pagine del diario sono solo un ammasso di frasi sconnesse e paranoiche, scritte senza nessuna logica, poi si interrompono di colpo. Nessuno sa che fine abbia fatto, né la
polizia l'ha mai scoperto dopo lunghissime indagini, fino a dare Phil per
morto. C'è chi dice che quel gentiluomo in realtà fosse un alieno, e che
l'abbia portato sul suo pianeta. Chi dice che fosse un vampiro, e ora il
vecchio Phil succhi il sangue alle prostitute in qualche squallido sobborgo,
beccandosi un sacco di malattie. Chi semplicemente dice che fosse impazzito per
il troppo lavoro, e che ora faccia il santone in qualche setta religiosa. Chi
può dirlo? Tuttavia, da allora, ogni tanto sparisce qualcuno, dicendo di aver
visto lo stesso uomo che hai visto tu stanotte. Nessuno finora, nemmeno la
polizia, l'esercito o la Santa Sede, ha mai potuto fare qualcosa per fermare
quell'uomo evanescente e inafferrabile come nebbia. Non so cosa ti abbia
portato qui, forestiero, ma dammi retta: scappa, corri lontano, tornatene da
dove sei venuto. Forse, se metti un oceano tra te e lui, riuscirai a
sfuggirgli. Forse".