giovedì 27 febbraio 2014

Il messaggio nella bottiglia - sesta parte

Photo by Fineart America


Dopo aver tracannato avidamente la prima delle due pinte di birra scura e torbida, l'uomo rimane a lungo a fissarmi pensieroso, come ad imprimere nella memoria ogni piccolo particolare della mia persona. Poi, sospirando, allunga la mano e mormora, con voce impastata dall'alcool: "innanzitutto credo sia buona etichetta che io mi presenti. Mi chiamo Jacques Fabre, mozzo. Il piacere, temo, non è né mio né tuo". Gli stringo timidamente la mano vergognandomi di quanto sia più grossa e forte della mia, sebbene la sua stretta sia flebile e debole come il batter d'ali di una falena morente, riflesso forse del suo animo spento. Inizio a sorseggiare lentamente la mia birra, fa davvero schifo. Avevo bisogno di qualcosa di caldo, ma non era certo quello che intendevo. Non c'è niente di peggio di una birra calda: è la perdita di ogni tipo di civiltà e cultura, di ogni valore morale, peggio del cannibalismo e dell'anarchia. Un nuovo sorso di birra e la lingua di Jacques si sguinzaglia come un cane affamato di parole, e, soprattutto, di attenzione. "Vedi, ragazzo mio, quando ero giovane ero mozzo nella barca di un pescatore del paese, un vecchio ubriacone che chiamavamo ironicamente "capitano Achab". Il suo vero nome non lo ricordava nessuno, giravano voci che perfino sua moglie lo chiamasse così. Pescavamo tutto quello che riuscivamo a pescare, non eravamo certo razzisti quando si trattava di mangiare. A quei tempi conobbi quello che sarebbe diventato il mio più caro amico, Philippe Roux. Lavorava come me nel peschereccio del "capitano Achab", ma ben presto, insoddisfatto e stanco delle angherie del capitano, mandò lui e tutti i pesci dell'atlantico al diavolo per dedicarsi alla sua vocazione, la contabilità. Molti di noi, me compreso, ritenevano fosse una vocazione squallida e triste, che razza di piacere si poteva trovare nei conti? Poi vedemmo la sua espressione quando chiudeva un bilancio e i conti quadravano, o quando un suo collega gli chiedeva una mano, e allora lui sembrava un'altra persona, fiera e solenne come l'oceano, e allora capimmo, e lo rispettammo. Fu qualche mese dopo che incontrò quel demonio. Ci eravamo persi un po' di vista, come è facile quando si prendono strade così divergenti, ma eravamo sempre ottimi amici, appena potevamo ci facevamo una birra insieme e mi raccontava di mondi aldilà della mia concezione, dove ogni cosa è un'idea, un numero, e tutto sembra irreale. Quello era il suo mondo, ed io ero forse l'unico a cui permetteva di entrarci. La gente spesso equivocava la nostra amicizia, voci maligne e di scherno circolavano di bocca in bocca come un virus, ma non ci ho mai dato peso. In questo paese la gente trova sempre qualcosa su cui ricamare e mormorare, e se non lo trova, lo inventa. Tuttavia, col tempo, continuammo lentamente ma inesorabilmente a perderci di vista. Ci vedevamo sempre meno, e quando succedeva non era più come una volta, ci limitavamo a parlare del più e del meno, non entravo più nel suo mondo dei numeri. Finché non ci vedemmo più. Naturalmente ne ero dispiaciuto, ma sembrava che comunque lui stesse bene, perciò non me ne preoccupai molto. Non potevo nemmeno immaginare che razza di incubo era diventata la sua vita. Lo scoprì solo quando era ormai troppo tardi, e non potrò mai perdonarmelo. Ciò che ti racconterò ora è solo una ricostruzione, nessuno sa precisamente ciò che successe realmente, soprattutto alla fine. Tuttavia voglio che ascolti attentamente, ti sembrerà assurdo ma devo metterti in guardia." Detto ciò, dopo aver parlato a lungo, bevve in un sorso la seconda pinta, come se avesse bisogno di carburante per continuare ad andare avanti. Un giovane si avvicina al tavolo e mi fissa con occhi increduli, fa per dire qualcosa ma Jacques lo zittisce subito con un brusco gesto della mano, e il giovane torna da dove era venuto. Guardandomi intorno noto che ognuno dei presenti mi lancia occhiate furtive, nei loro occhi scorgo una paura ancestrale, antica come l'uomo. Scolata ingordamente l'ultima pinta, l'uomo si asciuga con la manica la folta barba grigia, ingiallita a tratti dal fumo, e inizia a raccontare. "Tutto quello che ti racconto, come ti dicevo, è solo una ricostruzione a posteriori, l'unica testimonianza di ciò che accadde sono gli scritti paranoici di Phil, che tenne un diario della piega assurda che prese la sua vita. Tutto iniziò un giorno di primavera, quando ogni cosa tende a rinascere, compreso il male. Una sera, rincasando tardi da una serata di bisboccia al bar, lo vide. Viveva in uno di quei piccoli condomini alla periferia del paese, all'epoca appena costruito, e per entrare nel suo appartamento doveva aprire tre porte: il cancello esterno, quello interno, e infine la porta di casa. Aprendo il primo cancello, che dava accesso ad un piccolo cortile antistante l'edificio, lo trovò stranamente aperto. Non che ci fossero delinquenza o episodi di furto, ma quel cancello era sempre chiuso. Sempre. Tranne quella notte. Non ci fece molto caso sul momento, dopotutto era bello sbronzo, tanto che probabilmente non avrebbe notato nulla di strano nemmeno se avesse trovato il palazzo raso al suolo. Entrando lo vide, dicevo, un gentiluomo sulla settantina, che indossava un elegante frac nero sotto un lungo soprabito, con tanto di bombetta e bastone da passeggio. Lo stesso che hai visto tu stanotte. Sulle prime si spaventò per quell'incontro, cosa diavolo poteva starci lì a fare quel tizio stravagante, in piena notte? Tuttavia, i suoi modi impeccabili e la sua squisita gentilezza lo rassicurarono, così dopo aver scambiato qualche convenevole sul tempo e l'andamento dell'economia, cosa che a Phil stava molto a cuore, gli augurò una buonanotte e si congedò. Andò avanti così per diversi giorni, ogni notte trovava il cancello aperto e il gentiluomo all'interno. Qualche volta, scrisse nel diario, cercò di parlarne coi vicini, ma tutti giuravano di non aver sentito né visto nessuno, chiunque fosse quell'uomo si mostrava solo a lui. Fosse stato chiunque altro avrebbe chiamato la polizia, ma sentiva di non riuscire a cacciare in alcun modo quel gentiluomo così squisitamente cortese. Era come se, ammaliato da qualche stregoneria, non potesse muovergli alcun tipo di violenza o scortesia. Così non fece nulla. Dopo qualche giorno, tuttavia, finalmente trovò il cancello chiuso, ed il misterioso estraneo sparito. Si sentì stranamente sollevato, finché non giunse al secondo cancello, di accesso all'atrio e alle scale. Lo trovò aperto. Entrando terrorizzato trovò il gentiluomo che se ne stava lì al buio e per poco non gli prese un colpo. Lui, notando il suo spavento, se ne preoccupò subito, rassicurandolo con fare affabile di non essere un brigante da quattro soldi. In effetti non lo è, qualunque cosa sia si tratta di qualcosa di ben più terribile e pericoloso. Anche questa situazione durò qualche giorno, e fu in quel periodo che il mio amico iniziò a isolarsi da tutto e da tutti, come un elefante che si allontana dal branco quando sente che la morte gli è vicina. Iniziò a bere molto di più delle solite due pinte con gli amici, ossessionato da quell'uomo che, comunque, non era in grado di cacciare, e che si mostrava esclusivamente a lui. Una sera era così ubriaco che il gentiluomo dovette aiutarlo a salire le scale. Non ne parlò con nessuno, nemmeno con me, e fu in quei giorni che iniziò il diario di quei strani fatti. La sua paranoia aumentava di giorno in giorno, a volte non voleva nemmeno tornare a casa e passava la notte su qualche panchina. Al lavoro iniziarono a preoccuparsi del suo stato di salute, stanco e incolto com'era, come una bestia selvatica. Finché, una notte, trovò anche il secondo cancello chiuso, e l'uomo sparito. Salendo le scale e arrivando alla porta del suo appartamento la trovò aperta. Sentì, a quella scoperta, come se la falce della morte fosse puntata al suo collo, pronta a decapitarlo. I primi due cancelli potevano essere stati dimenticati aperti da qualche inquilino sbadato, ma quella no, era certo di averla chiusa. E tale doveva rimanere. Esaminando la serratura non trovò alcun segno di forzatura o manomissione, funzionava perfettamente, era come se qualcuno avesse accesso al suo mondo metafisico delle idee e dei numero, e in quel mondo avesse manomesso l'idea della sua serratura. Era sempre la solita serratura, perfettamente funzionante, e al contempo non lo era più. Come se avesse cancellato la sua qualità di essere una serratura e l'avesse resa solo un pezzo inutile di ferro. Una serratura annichilita, umiliata e imbrogliata. Tale sembrava essere il potere del gentiluomo. Da quel momento in poi sappiamo ben poco di ciò che ha vissuto. Pare che in casa non ci fu traccia del misterioso gentiluomo, o piuttosto di quel terribile demonio quale si rivelò. Phil visse gli ultimi giorni nel terrore più assoluto, senza più uscire di casa, conscio che ogni minima distrazione sarebbe potuta essere fatale. Non dormiva e non mangiava, non desiderando altro che quell'uomo fosse venuto e l'incubo avesse fine. Le ultime pagine del diario sono solo un ammasso di frasi sconnesse e paranoiche, scritte senza nessuna logica, poi si interrompono di colpo. Nessuno sa che fine abbia fatto, né la polizia l'ha mai scoperto dopo lunghissime indagini, fino a dare Phil per morto. C'è chi dice che quel gentiluomo in realtà fosse un alieno, e che l'abbia portato sul suo pianeta. Chi dice che fosse un vampiro, e ora il vecchio Phil succhi il sangue alle prostitute in qualche squallido sobborgo, beccandosi un sacco di malattie. Chi semplicemente dice che fosse impazzito per il troppo lavoro, e che ora faccia il santone in qualche setta religiosa. Chi può dirlo? Tuttavia, da allora, ogni tanto sparisce qualcuno, dicendo di aver visto lo stesso uomo che hai visto tu stanotte. Nessuno finora, nemmeno la polizia, l'esercito o la Santa Sede, ha mai potuto fare qualcosa per fermare quell'uomo evanescente e inafferrabile come nebbia. Non so cosa ti abbia portato qui, forestiero, ma dammi retta: scappa, corri lontano, tornatene da dove sei venuto. Forse, se metti un oceano tra te e lui, riuscirai a sfuggirgli. Forse". 

venerdì 21 febbraio 2014

Il messaggio nella bottiglia - quinta parte

Photo by Sabatino di Giuliano 


I tre uomini mi circondano minacciosi senza proferire parola, come se non cercassero né spiegazioni né giustificazioni per quanto stanno per fare. Non ne hanno bisogno, è così ovvio che altrimenti sarebbe stata un'offesa alla mia intelligenza. Mi sono sempre domandato cosa si provi in situazioni così spiacevoli, e purtroppo stanotte trovo la risposta: niente, assolutamente niente. L'adrenalina e la paura annebbiano e intorpidiscono la mia mente come valeriana a tal punto che non riesco effettivamente a provarla, la paura. Mi rendo conto di esserne pregno dal tremolio delle mie mani e dal mio fiato corto, tuttavia la mia mente è totalmente vuota, come in trance. Vorrei pensare a qualcosa, qualunque cosa, per svicolare questa brutta situazione, ma non riesco a pensare. La mia mente deve trovare la situazione più noiosa che pericolosa, e decide di allontanarsi dal mio corpo per tornare ad un tranquillo pomeriggio d'estate di tanti anni fa. Io e alcuni altri allievi siamo seduti intorno al nostro maestro, sul prato antistante il dojo. Un maestro, di qualunque tipo, si riconosce facilmente: è la persona alla quale tutti prestano volentieri orecchio quando parla, qualunque sia l'argomento. Così facemmo noi quel tranquillo pomeriggio, oziosi e pigri dopo una mattina di intenso allenamento. Sapete, ragazzi", iniziò il maestro con tono confidenziale, come a raccontarci un segreto, "il leone, in realtà, non si meriterebbe affatto il titolo di "re della foresta". Nel suo habitat non è l'animale più grosso, né il più forte, né il più veloce. Tuttavia, ogni volta che combatte, non viene mai sconfitto. Mai. Vi siete mai chiesti il perché?" chiese guardandoci negli occhi, con un sorrisetto furbo che gli solcava il viso di rughe come dune nel deserto. "Perché conosce il karate?", rispose scherzosamente un allievo, un giovanotto tanto talentuoso quanto indolente, che trovavo piuttosto odioso. Ci fu una grande risata, a cui prese parte il maestro, e per un istante fummo tutti uguali, senza né gradi né differenze. "No, ovviamente no", rispose poi lui, tornando serio e solenne, "è principalmente perché il leone attacca solo animali che è sicuro di poter abbattere. Se tentasse con un elefante verrebbe schiacciato in un attimo. Egli non cerca la gloria, non le grandi imprese o il coraggio, vuole solo riempire la pancia, e in quello nessuno è meglio del leone. L'uomo, per certi aspetti, gli è simile. Sappiate che, se verrete mai attaccati da malintenzionati, quasi certamente egli è certo di potervi sconfiggere. Ricordatevelo sempre, può sembrare un fatto di poco conto, ma è fonte di grande sicurezza e forza, come di grande debolezza." Allora è così, per questo non parlano: ho a che fare con dei leoni. Non sono ancora del tutto tornato da quel tranquillo pomeriggio d'estate che mi ritrovo per terra, colpito dalla zampata del leone. La cosa buffa è che, a causa dell'adrenalina, continuo a non provare nulla, nemmeno il dolore. Sono come anestetizzato. Il dolore, quello vero, verrà poi. Sempre che non mi uccidano. Resto del tutto inerte mentre vengo continuamente colpito, dalla forte sensazione di calore che percepisco alla tempia e al naso deduco che stia perdendo sangue. Credo sia la fine, anche se non riesco a sentire nemmeno lei. Delle immagini confuse della mia vita scorrono davanti ai miei occhi, come a ricercare, nella memoria, qualche modo per scampare alla morte. Riesco solo a ricordare il nome di quella bimba dal caschetto castano che mi piaceva all'asilo, e della quale mi ero completamente scordato. La strategia per battere il boss finale in un vecchio videogioco della mia infanzia. Le istruzioni di sicurezza dell'aereo. Niente su come scampare alla morte, maledizione. Vedo i miei stessi occhi guardarmi confusi e increduli a pochi centimetri dai miei. Rimango qualche istante a fissarli senza capire, poi il mio campo visivo si allarga e scopro la più ovvia e cruda verità: erano i miei occhi riflessi nella lucente lama di un coltello, messo in bella mostra dal sogghignante leone come un figlio dotato. Non riconosco la fine finché non mi è a pochi centimetri dal volto, e mi guarda con i miei stessi occhi. Posso vedere entrambi i nostri sguardi, il mio spento e rigido, il suo compiaciuto e al contempo feroce. Gli altri due leoni osservano la scena in silenzio, pronti ad intervenire se anche solo provassi a reagire, senza abbandonarsi ad atti denigratori o provocatori nei miei confronti. Sembrano persone molto serie in quello che fanno, e in qualche modo mi viene naturale provare una punta di rispetto nei loro confronti. Proprio mentre la fatale lama sta per calare sul mio inerte corpo, talmente inerte da essere già morto, il suo sguardo cambia. Non riesco ad immaginare cosa possa farlo cambiare proprio ora che sta per concludersi tutto, cosa possa rompere la sua concentrazione e determinazione. In un attimo il suo peso, che fino ad ora incatenava il mio corpo al suolo, diventa meno opprimente, per poi sparire del tutto quando si solleva e si allontana da me di qualche passo. Nei suoi occhi una paura cieca, irrazionale, come avesse visto Lucifero in persona che, vestito da vigile e con tanto di paletta in mano, gli fa cenno di accostare. Seguo il suo sguardo fino all'orizzonte e allora, finalmente, lo vedo: un uomo distinto, si direbbe piuttosto anziano, si staglia in controluce in lontananza. E' piuttosto lontano, ma basta la sua figura indistinta per mettere in allarme i leoni, come una scura nuvola all'orizzonte promette tuoni e fulmini. Nonostante ne scorga solo la sagoma, deduco che è vestito molto elegantemente, con tanto di bombetta e bastone da passeggio. Vorrei urlare qualcosa, dirgli di fuggire, ma la tensione blocca la mia voce in profondità, prima ancora delle corde vocali, molto più giù. D'altronde non credo riuscirebbe a sfuggire. Approfittando della loro distrazione mi rialzo e mi guardo intorno: sono spariti. Li scorgo in lontananza che fuggono terrorizzati, inciampando l'uno sull'altro e spintonandosi. E' bastata la sagoma nera in lontananza di quel gentiluomo a sgretolare tutta la loro fredda e composta determinazione, come un fuoco ha allontanato e spaventato i leoni. Una forte nausea stringe come una morsa le mie viscere, come a segnalare che ho ripreso possesso del mio corpo. Anche il dolore inizia a farsi sentire, sebbene ancora vago e anestetizzato. L'uomo si avvicina e sento finalmente di potermi rilassare e abbandonare, perdo i sensi mentre le sue mani nerborute mi afferrano sotto le ascelle e mi sollevano con facilità. Mi risveglio nel pavimento in legno marcio di una fumosa e lercia bettola, deve trattarsi del bar che avevo scorto in lontananza. Realizzo di essere salvo, e sono così sollevato e contento che mi viene da piangere. C'è un forte silenzio nell'aria, e mi accorgo che tutti mi fissano cupi e seri, come una equipe di medici osserva un malato incurabile. Poi finalmente un uomo robusto sulla settantina, vestito pesantemente con un giaccone di flanella, pantaloni logori e stivali, mi domanda: "l'hai visto? L'hai visto davvero? Mi riferisco ad un uomo sulla settantina, vestito come un gentiluomo, con bombetta e cappello. E' lui che ti ha portato qui? Rimango un secondo in silenzio, a studiare l'espressione cupa dell'uomo, la grigia barba ispida che cela un volto che non deve sorridere molto spesso. "Sì", rispondo infine, sospirando, "quell'uomo mi ha salvato la vita, ero stato assalito da tre malintenzionati e sarei rimasto ucciso, se non fosse stato per lui. Non so come, ma la sua presenza è bastata a metterli in fuga. E' un poliziotto, o qualcosa del genere?". I suoi occhi hanno un rapido guizzo, poi si volgono in basso a destra, come a riportare alla mente un ricordo. Un ricordo doloroso. "No, ragazzo mio", risponde mesto, "siediti qui e ascoltami, devo raccontarti una storia molto importante. Temo tu sia caduto dalla padella nella brace: sei in grave pericolo, e nessuno potrà aiutarti, stavolta." L'uomo mi fa accomodare su un tavolino in disparte e ordina due birre, domandandomi poi cosa volessi. Ordino una birra anche io e aspetto che inizi a raccontare. "Come ti ho detto, sei in grave pericolo, figliolo. Quell'uomo è un demonio, o qualcosa di altrettanto diabolico e pericoloso, e se si è mostrato a te temo non avrai vita lunga ". 

sabato 1 febbraio 2014

Il messaggio nella bottiglia - quarta parte



E' ormai da tre giorni che mi trovo in questo piccolo paesino in Canada. La cosa buffa è che non ho ancora capito come si chiama, e dopotutto non mi importa. Ho compiuto questo viaggio per rompere la routine, invece non ho fatto altro che crearne un'altra: ogni giorno mi sveglio, faccio colazione in un bar vicino al mio ostello, poi faccio una lunga passeggiata nel bosco appena fuori il paese, fino a pranzo. Buck naturalmente viene con me e sembra trovarsi a suo agio a scorrazzare allegro per il bosco, la sua razza è originaria di un'isola canadese e mi dà l'impressione di essere tornato a casa. Dopo pranzo vado sempre in spiaggia, osservo a lungo il mare o leggo un buon libro. La sera faccio compagnia al vecchio proprietario dell'ostello in cui alloggio, il signor Hank, che sembra avermi preso in simpatia e non resiste alla tentazione di condividere con me la sua passione per i vecchi film western.  La mia vita a casa sembra già un ricordo lontano, come se l'avessi vissuta in un'altra vita, e ho l'occasione per vederla da un punto di vista alquanto esterno ed imparziale, cosa che mi giova molto. Forse era solo di questo che avevo bisogno, il tesoro rimane ancora un'idea lontana, irraggiungibile. Per ora ci sono solo io, seduto su questa spiaggia a pensare quanto poco abbia realizzato nella mia vita. Probabilmente, se le cose fossero andate diversamente, non mi troverei qui. Lancio pensieroso qualche sasso sull'acqua cercando di farlo rimbalzare, ma le grosse onde rendono vano ogni tentativo, così mi arrendo e torno a leggere il mio libro, seduto su un asciugamano. Mi chiedo cosa mi spinge a venire qui ogni giorno, la tempesta non accenna a dare segni di stanchezza e potrei benissimo fare qualcosa di più costruttivo. Tuttavia il mio istinto mi sussurra di farlo, e improvvisamente ne intuisco la ragione: senza che me ne accorgessi una donna è comparsa sulla spiaggia, a pochi metri da me, intenta a disegnare su un blocco note. Non sembra ritrarre il paesaggio dell'oceano in tempesta poiché non alza mai il capo dal foglio, sembra piuttosto immersa nel suo mondo, ed è quello che sta ritraendo. I capelli castani, lunghi fino alla spalla, le ondeggiano dolcemente come erba nei prati, e ogni tanto si scosta qualche ciocca dal viso. Il suo abbigliamento è piuttosto originale ma di buon gusto: indossa scarponcini neri, pantaloni leggermente aderenti di un acceso color fucsia e un giaccone di flanella a righe color panna. Non avevo mai visto prima d'ora una ragazza vestita come lei, e nella sua originalità è perfetta, semplicemente perfetta. Da quando l'ho vista non riesco più a concentrarmi sul libro, è come se avessi la sensazione che lei mi stia osservando, invece ogni volta che alzo lo sguardo lei è sempre concentrata sul suo blocco da disegno. La sua matita scorre veloce sul foglio come una bacchetta magica, intenta a creare chissà quale meraviglia. All'improvviso alza lo sguardo e mi nota, i nostri sguardi si incontrano come i nostri cuori. Mi tuffo nella profondità dei suoi grandi occhi castani, mi perdo in lei e mi ritrovo migliore. E' il momento più bello della mia vita, ora sa che esisto, che le piaccia o meno, e dovrà prendere una posizione sulla mia esistenza. Che sia pro o contro dovrà prenderla, e questo mi fa sentire speciale. Mi sento come quando il maestro, fra tutti gli allievi, sceglieva me per qualche dimostrazione. Anzi, è come se quella sensazione di euforia e gloria fosse amplificata immensamente, in questo momento mi sento la persona più importante del mondo. La magia di quest'istante sbiadisce subito mentre lei si alza e si allontana verso il paese, con lo sguardo rivolto ai suoi piedi ad evitare il mio. In un istante, come era apparsa, è scomparsa. A quanto pare è contro, riguardo la mia esistenza. La sensazione di euforia si tramuta in vergogna e delusione, d'altronde cosa potevo aspettarmi? Una donna così bella e interessante non mi noterebbe mai, sono stato solo il fastidioso estraneo che si è intromesso nel suo mondo, guastando la pace di quel momento di solitudine. Imparo oggi che l'amore, soprattutto all'inizio, non è altro che una speranza incrollabile, resistente perfino alle più evidenti prove di disinteresse. Lo imparo sulla mia pelle, come tutto ciò che ho imparato fino ad oggi, restando fino a sera ad aspettarla in questa spiaggia, sussultando ad ogni persona che scorgo in lontananza e restando deluso poco dopo, quando i contorni della sagoma diventano più nitidi e scopro che non è lei. Al crepuscolo mi arrendo, non tornerebbe certo di notte, come potrebbe disegnare al buio? Così decido di fare una passeggiata, con un tifone immensamente più grande di quello al largo nel mio cuore, cercando di non pensarci. Buck mi sembra stanco così decido di lasciarlo in ostello a riposare, gli riempio la ciotola ed esco. Dopo circa mezz'ora di cammino mi ritrovo nel piccolo porto del paese, niente di più che qualche molo e qualche magazzino per stipare le merci, ma per me è molto importante perché è da qui che partirò alla volta dell'isola. Molti lampioni hanno le lampadine fulminate e le zone illuminate sono poche, rare e sperdute come isolette in mezzo al pacifico, mentre l'oscurità è profonda e fredda come l'immenso oceano. L'unica presenza di vita sembra essere un bar per marinai su una banchina in lontananza, scarsamente illuminato da un'insegna che non riesco a decifrare, tuttavia dalle vetrate annerite dal fumo riesce a fuoriuscire un po' di luce, calda e invitante. Decido di andarci, può darsi che mi sarà utile, potrei mettermi d'accordo con qualche marinaio o pescatore per farmi portare all'isola. La sua luce rassicurante sembra irraggiungibile mentre un rumore di passi e risate sommesse intorno a me mi rende nervoso e spaventato come un'animale braccato. Il bar è ancora lontano quando un grosso marinaio si para di fronte a me, bloccandomi la strada. Non sembra certo avere buone intenzioni, ma è piuttosto lontano da me, circa 5 o 6 metri, e questo mi tranquillizza. Respiro più silenziosamente possibile, basta che mi volto e inizio a correre più velocemente possibile senza voltarmi indietro, non è un problema. Posso farcela. Mi volto di scatto e mi scontro duramente contro un altro uomo. Indietreggio di parecchi passi per il contraccolpo, lui invece rimane immobile come una colonna. Da un angolo buio si avvicina lentamente un terzo uomo, mostrando i denti come una belva furiosa. Sono nei guai, decisamente nei guai. Merda.