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Da mio padre ricevetti un'educazione
che potrei definire alquanto nichilista. Fin dalla più tenera età, noncurante
di quanto in quegli anni la spensieratezza e l'ingenuità valgano più di
qualsiasi cosa, mi ha sempre ripetuto che nella vita l'unica vera certezza è la
morte. Non ne esistono altre. Fin dalla più tenera età, a queste sue parole,
sono solito afferrarmi i genitali in gesto scaramantico. Con discrezione, per
non mostrarmi irrispettoso dinanzi a ciò che sembrava essere l'unico insegnamento
che avesse da trasmettermi. In una fredda mattina di inizio inverno, quando
avevo circa nove anni, approfondì il discorso davanti a due tazze di the
fumante. "Come ti ho già detto e ridetto mille volte, la morte è l'unica
certezza che abbiamo al mondo " iniziò con voce profonda e piatta, tanto
da farmi ciondolare la testa dal sonno, "tuttavia esistono, nel suo infinito
e incomprensibile meccanismo, alcuni fatti che, se non accadono imprevisti,
sono molto vicini ad essere una certezza. Naturalmente gli imprevisti sono
praticamente infiniti, mentre i fattori che, mescolandosi ad arte, fanno sì che
quel fatto accade, sono relativamente pochi. Pensa al fatto di prendere un
pullman: in linea di massima arriverà all'ora indicata nel tabellone con gli
orari. Ma potrebbe succedere che buchi una ruota, o che l'autista abbia un
malore, o perfino che gli cada un meteorite addosso. Ovviamente è molto
difficile che ci sia qualche imprevisto, ma può sempre succedere. Così è per
quelle che io definisco "costanti": a meno che non vi siano
imprevisti accadono costantemente, in maniera regolare. La saggezza sta nel
riconoscerle dai particolari che fanno sì che queste avvengono. Se sarai in grado di riconoscere e comprendere
i segnali che il mondo trasmette, sarà come prendere l'autobus potendo leggere
il tabellone con gli orari. Sempre che non accadano imprevisti." Ricordo
perfettamente ogni minimo particolare di quella conversazione: i vestiti che
indossavamo, il sapore del the, il ritmo altalenante della sua voce e il pigro
e cupo gracchiare di una cornacchia nel giardino di casa. Probabilmente perché
fu l'ultima vera conversazione che ebbi l'occasione di avere con lui. Come a
volermi dimostrare fino in fondo la veridicità delle sue parole, mio padre se
ne andò all'improvviso, pochi mesi più tardi, in una silenziosa notte di fine
inverno. Naturalmente il dolore fu immenso, sconfinato come le profondità del
cuore e della mente, ma il dolore non fu l'unico protagonista. Compresi quel
giorno che si diventa uomini solamente alla scomparsa del proprio padre,
perdendo l'unica persona ai cui occhi rimarremo sempre quei paffuti bambini ai
quali bisogna insegnare tutto. Io non ero pronto, immerso nell'innocenza dei
miei anni, a perdere insieme a mio padre l'idea della mia infanzia, di potermi
ancora permettere di essere sgridato, incoraggiato, coccolato. Tutto ciò finì
in quella fredda notte di fine inverno. La primavera non tardò mai così tanto
ad arrivare.
Non sono mai stato molto avvezzo al
concetto di lutto. Sembra lasci intendere che il dolore per la perdita di una
persona cara sia solo una fase passeggera, come quelle noiose giornate passate
a casa con la febbre, per poi tornare alla normalità. Ma non si torna più
indietro. Le persone scomparse non tornano in vita, e le occasioni in cui
sentiremo distintamente la loro mancanza si presenteranno per tutta la vita.
Mio padre mi è mancato il giorno del mio diploma, quando orgoglioso e con le
lacrime agli occhi mi avrebbe calorosamente stretto la mano, facendomi sentire
grande. Mi mancherà quando un giorno avrò dei figli, e lui li avrebbe cullati
come fece con me, realizzando di essere invecchiato. Mi è mancato il giorno in
cui finalmente, dopo più di dieci anni dalla sua scomparsa, scoprii per la
prima volta una costante. Successe tutto in una grigia mattina di inizio
primavera, poco dopo l'anniversario della sua scomparsa. Una finissima
pioggerellina cadeva perpetua da diverse ore, tanto fitta da rendere
difficoltoso tenere gli occhi aperti. Quel giorno andai alla segreteria della
mia università con una mia amica, anch'essa iscritta agli studi, per porre
entrambi fine al nostro lungo e infruttuoso percorso di studi. Sotto quella
pioggia fine chinammo insieme il capo di fronte ad una strada che, dopotutto,
non ha mai fatto per noi. Per recarci alla segreteria prendemmo la
metropolitana e fu lì che trovai la costante, il tabellone con gli orari
dell'autobus per potermi muovere nel mondo. Arrivati sulla banchina dove
sarebbe arrivato il treno notai che la mia amica guardò per qualche istante per
terra, scrutando con sguardo concentrato la pavimentazione ingrigita. Dopodiché
si diresse a passo sicuro in un preciso punto a circa due terzi della banchina,
e mi consigliò di rimanere lì: il treno si sarebbe fermato con le porte
esattamente di fronte a noi, e saremmo riusciti a salire subito. Inutile dire
che fu proprio quello che successe. Le porte del treno si aprirono esattamente
davanti a noi, e nel mio stupore riuscimmo anche a trovare posto a sedere,
entrando nel vagone prima di tutti gli altri. Riconobbi subito che non era un
fatto casuale, doveva per forza trattarsi di una costante. In un profondo stato
di euforia, come l'archeologo che ritrova dopo millenni la leggendaria tomba di
un antico re egizio, domandai spiegazioni alla mia amica. In un sussurro mi
confidò la sua teoria, con fare cospiratorio, come se ciò che stava per
rivelarmi fosse un segreto in grado di scuotere le fondamenta del mondo.
Secondo tale teoria, o costante, pare sia molto semplice capire dove si
apriranno le porte: basta osservare con attenzione la banchina. L'area in cui
si trovano più chewing gum buttati a terra è dove si aprono le porte. Questo
perché il momento più probabile in cui le persone sputano il chewing gum è
salendo e scendendo dal treno. Non durante il viaggio, o mentre aspettano che
arrivi il treno, ma nell'attimo di transizione, dove si compiono la maggior
parte delle scelte. Il mio cuore effettuò svariate capriole, scosso da emozioni
profonde ed echi di ricordi lontani: avevo trovato una costante. In un giorno
di sconfitta come quello, col capo chino sotto la pioggia battente, trovai per
terra una saggezza più preziosa di qualsiasi laurea. In quel momento pensai a
quanto mio padre sarebbe stato lieto per me, e il suo ricordo e la sua mancanza
non sono mai stati tanto vivi.
Da quel giorno la mia vita di tutti i
giorni migliorò radicalmente. Con passo deciso, dopo aver scovato l'area dove
si trovavano più chewing gum spiaccicati e anneriti, riuscivo ad entrare sul
treno appena si fermava, trovando spesso posto a sedere. Non arrivavo mai tardi
ad un appuntamento, né al lavoro, e vi giungevo più fresco e riposato. Scoprii
ben presto quanto fossero utili le costanti, e aguzzavo i miei sensi nel tentativo
di individuarne degli altri, senza tuttavia riuscire a trovarne. La mia amica,
prima che ci perdessimo di vista nel caos del mondo, mi fece dono di una
costante che si rivelò utilissima, e forse il già magnanimo destino non ne
prevedeva altre. Mi stava bene così. Nel mio piccolo ero felice. Ma, nonostante
la loro apparente rarità, arrivò il giorno che gli imprevisti bussarono alla
mia porta, con tanta veemenza da scardinarla. Successe circa due anni da quella
piovosa mattina in metropolitana. In un fatidico mattino d'inizio estate lessi
sul giornale che il chewing gum era diventato illegale a causa della scoperta
che il suo ingrediente principale era dannoso per l'organismo. Particolarmente
dannoso. Tanto che, con una bella campagna con la quale l'unica cosa che voleva
ripulire era la propria immagine, il sindaco della mia città la fece pulire da
cima a fondo, cancellando ogni traccia di chewing gum dalle strade. E dalle
banchine delle stazioni metropolitane. Fu come perdere la vista dopo aver visto
l'imperturbabile profondità del cielo stellato. Come perdere l'uso delle gambe
dopo aver percorso per miglia e miglia la meravigliosa varietà del mondo. Iniziai
ad arrivare tardi al lavoro e agli appuntamenti, non riuscendo più a salire nei
treni affollati dell'ora di punta. Ero più stanco, e stressato, e amareggiato.
Avevo perso l'unica certezza che avevo al mondo. Trascorsi gli anni successivi
spaesato e sperduto in un mondo che non riuscivo più a comprendere né a
prevedere. Ma anche questo non poteva durare per sempre. Il ragionamento era
semplice, tuttavia non ci avevo mai pensato prima di allora: se gli imprevisti
sconvolgono il delicato equilibrio delle costanti, facendole crollare come
castelli di carte, l'imprevisto stesso può crollare sotto la spinta di un'altro
imprevisto. Logico, no? Ci volle tempo per realizzare la mia idea, un certo
investimento economico e qualche litigata con mia moglie, contraria fin da
subito a questa follia. Alla fine, dopo alcuni mesi di preparativi, ero pronto
a metterla in pratica, manovrando e guidando il destino a mio piacimento. Fu
così che diventai uno spacciatore di chewing gum. Da allora il marciapiede
della metropolitana è nuovamente tappezzato da chewing gum ad indicarmi la via.
Come la coscienza del sindaco.