lunedì 23 giugno 2014

Lo spacciatore di chewing gum

Fonte: www.simonedecker.com



Da mio padre ricevetti un'educazione che potrei definire alquanto nichilista. Fin dalla più tenera età, noncurante di quanto in quegli anni la spensieratezza e l'ingenuità valgano più di qualsiasi cosa, mi ha sempre ripetuto che nella vita l'unica vera certezza è la morte. Non ne esistono altre. Fin dalla più tenera età, a queste sue parole, sono solito afferrarmi i genitali in gesto scaramantico. Con discrezione, per non mostrarmi irrispettoso dinanzi a ciò che sembrava essere l'unico insegnamento che avesse da trasmettermi. In una fredda mattina di inizio inverno, quando avevo circa nove anni, approfondì il discorso davanti a due tazze di the fumante. "Come ti ho già detto e ridetto mille volte, la morte è l'unica certezza che abbiamo al mondo " iniziò con voce profonda e piatta, tanto da farmi ciondolare la testa dal sonno, "tuttavia esistono, nel suo infinito e incomprensibile meccanismo, alcuni fatti che, se non accadono imprevisti, sono molto vicini ad essere una certezza. Naturalmente gli imprevisti sono praticamente infiniti, mentre i fattori che, mescolandosi ad arte, fanno sì che quel fatto accade, sono relativamente pochi. Pensa al fatto di prendere un pullman: in linea di massima arriverà all'ora indicata nel tabellone con gli orari. Ma potrebbe succedere che buchi una ruota, o che l'autista abbia un malore, o perfino che gli cada un meteorite addosso. Ovviamente è molto difficile che ci sia qualche imprevisto, ma può sempre succedere. Così è per quelle che io definisco "costanti": a meno che non vi siano imprevisti accadono costantemente, in maniera regolare. La saggezza sta nel riconoscerle dai particolari che fanno sì che queste avvengono.  Se sarai in grado di riconoscere e comprendere i segnali che il mondo trasmette, sarà come prendere l'autobus potendo leggere il tabellone con gli orari. Sempre che non accadano imprevisti." Ricordo perfettamente ogni minimo particolare di quella conversazione: i vestiti che indossavamo, il sapore del the, il ritmo altalenante della sua voce e il pigro e cupo gracchiare di una cornacchia nel giardino di casa. Probabilmente perché fu l'ultima vera conversazione che ebbi l'occasione di avere con lui. Come a volermi dimostrare fino in fondo la veridicità delle sue parole, mio padre se ne andò all'improvviso, pochi mesi più tardi, in una silenziosa notte di fine inverno. Naturalmente il dolore fu immenso, sconfinato come le profondità del cuore e della mente, ma il dolore non fu l'unico protagonista. Compresi quel giorno che si diventa uomini solamente alla scomparsa del proprio padre, perdendo l'unica persona ai cui occhi rimarremo sempre quei paffuti bambini ai quali bisogna insegnare tutto. Io non ero pronto, immerso nell'innocenza dei miei anni, a perdere insieme a mio padre l'idea della mia infanzia, di potermi ancora permettere di essere sgridato, incoraggiato, coccolato. Tutto ciò finì in quella fredda notte di fine inverno. La primavera non tardò mai così tanto ad arrivare.

Non sono mai stato molto avvezzo al concetto di lutto. Sembra lasci intendere che il dolore per la perdita di una persona cara sia solo una fase passeggera, come quelle noiose giornate passate a casa con la febbre, per poi tornare alla normalità. Ma non si torna più indietro. Le persone scomparse non tornano in vita, e le occasioni in cui sentiremo distintamente la loro mancanza si presenteranno per tutta la vita. Mio padre mi è mancato il giorno del mio diploma, quando orgoglioso e con le lacrime agli occhi mi avrebbe calorosamente stretto la mano, facendomi sentire grande. Mi mancherà quando un giorno avrò dei figli, e lui li avrebbe cullati come fece con me, realizzando di essere invecchiato. Mi è mancato il giorno in cui finalmente, dopo più di dieci anni dalla sua scomparsa, scoprii per la prima volta una costante. Successe tutto in una grigia mattina di inizio primavera, poco dopo l'anniversario della sua scomparsa. Una finissima pioggerellina cadeva perpetua da diverse ore, tanto fitta da rendere difficoltoso tenere gli occhi aperti. Quel giorno andai alla segreteria della mia università con una mia amica, anch'essa iscritta agli studi, per porre entrambi fine al nostro lungo e infruttuoso percorso di studi. Sotto quella pioggia fine chinammo insieme il capo di fronte ad una strada che, dopotutto, non ha mai fatto per noi. Per recarci alla segreteria prendemmo la metropolitana e fu lì che trovai la costante, il tabellone con gli orari dell'autobus per potermi muovere nel mondo. Arrivati sulla banchina dove sarebbe arrivato il treno notai che la mia amica guardò per qualche istante per terra, scrutando con sguardo concentrato la pavimentazione ingrigita. Dopodiché si diresse a passo sicuro in un preciso punto a circa due terzi della banchina, e mi consigliò di rimanere lì: il treno si sarebbe fermato con le porte esattamente di fronte a noi, e saremmo riusciti a salire subito. Inutile dire che fu proprio quello che successe. Le porte del treno si aprirono esattamente davanti a noi, e nel mio stupore riuscimmo anche a trovare posto a sedere, entrando nel vagone prima di tutti gli altri. Riconobbi subito che non era un fatto casuale, doveva per forza trattarsi di una costante. In un profondo stato di euforia, come l'archeologo che ritrova dopo millenni la leggendaria tomba di un antico re egizio, domandai spiegazioni alla mia amica. In un sussurro mi confidò la sua teoria, con fare cospiratorio, come se ciò che stava per rivelarmi fosse un segreto in grado di scuotere le fondamenta del mondo. Secondo tale teoria, o costante, pare sia molto semplice capire dove si apriranno le porte: basta osservare con attenzione la banchina. L'area in cui si trovano più chewing gum buttati a terra è dove si aprono le porte. Questo perché il momento più probabile in cui le persone sputano il chewing gum è salendo e scendendo dal treno. Non durante il viaggio, o mentre aspettano che arrivi il treno, ma nell'attimo di transizione, dove si compiono la maggior parte delle scelte. Il mio cuore effettuò svariate capriole, scosso da emozioni profonde ed echi di ricordi lontani: avevo trovato una costante. In un giorno di sconfitta come quello, col capo chino sotto la pioggia battente, trovai per terra una saggezza più preziosa di qualsiasi laurea. In quel momento pensai a quanto mio padre sarebbe stato lieto per me, e il suo ricordo e la sua mancanza non sono mai stati tanto vivi.



Da quel giorno la mia vita di tutti i giorni migliorò radicalmente. Con passo deciso, dopo aver scovato l'area dove si trovavano più chewing gum spiaccicati e anneriti, riuscivo ad entrare sul treno appena si fermava, trovando spesso posto a sedere. Non arrivavo mai tardi ad un appuntamento, né al lavoro, e vi giungevo più fresco e riposato. Scoprii ben presto quanto fossero utili le costanti, e aguzzavo i miei sensi nel tentativo di individuarne degli altri, senza tuttavia riuscire a trovarne. La mia amica, prima che ci perdessimo di vista nel caos del mondo, mi fece dono di una costante che si rivelò utilissima, e forse il già magnanimo destino non ne prevedeva altre. Mi stava bene così. Nel mio piccolo ero felice. Ma, nonostante la loro apparente rarità, arrivò il giorno che gli imprevisti bussarono alla mia porta, con tanta veemenza da scardinarla. Successe circa due anni da quella piovosa mattina in metropolitana. In un fatidico mattino d'inizio estate lessi sul giornale che il chewing gum era diventato illegale a causa della scoperta che il suo ingrediente principale era dannoso per l'organismo. Particolarmente dannoso. Tanto che, con una bella campagna con la quale l'unica cosa che voleva ripulire era la propria immagine, il sindaco della mia città la fece pulire da cima a fondo, cancellando ogni traccia di chewing gum dalle strade. E dalle banchine delle stazioni metropolitane. Fu come perdere la vista dopo aver visto l'imperturbabile profondità del cielo stellato. Come perdere l'uso delle gambe dopo aver percorso per miglia e miglia la meravigliosa varietà del mondo. Iniziai ad arrivare tardi al lavoro e agli appuntamenti, non riuscendo più a salire nei treni affollati dell'ora di punta. Ero più stanco, e stressato, e amareggiato. Avevo perso l'unica certezza che avevo al mondo. Trascorsi gli anni successivi spaesato e sperduto in un mondo che non riuscivo più a comprendere né a prevedere. Ma anche questo non poteva durare per sempre. Il ragionamento era semplice, tuttavia non ci avevo mai pensato prima di allora: se gli imprevisti sconvolgono il delicato equilibrio delle costanti, facendole crollare come castelli di carte, l'imprevisto stesso può crollare sotto la spinta di un'altro imprevisto. Logico, no? Ci volle tempo per realizzare la mia idea, un certo investimento economico e qualche litigata con mia moglie, contraria fin da subito a questa follia. Alla fine, dopo alcuni mesi di preparativi, ero pronto a metterla in pratica, manovrando e guidando il destino a mio piacimento. Fu così che diventai uno spacciatore di chewing gum. Da allora il marciapiede della metropolitana è nuovamente tappezzato da chewing gum ad indicarmi la via. Come la coscienza del sindaco. 

martedì 10 giugno 2014

Rabbia di vetro

"Loneliness" by Ahmed Law


La donna di mezza età, che da quando ho memoria si prende cura di me e che a rigor di logica dovrei chiamare mamma, mi chiama Toby. Così come mi chiama suo marito, o papà, e i loro figli. O fratelli. Perfino il cagnolino, un chiassoso chihuahua la cui mole è inversamente proporzionale alla sua aggressività, sembra voler imitare i padroni e, in un patetico tentativo di compiacerli, sembra scandire coi suoi acuti latrati il nome Toby. Sentirmi continuamente appellare con quel nome, senza che nessuno mi abbia mai chiesto un parere al riguardo, è la seconda voce in ordine di gravità nella lista delle umiliazioni che mi tocca subire. Spesso mi domando come mi avesse chiamato mia madre, in origine. Thomas, ad esempio, sarebbe stato proprio un bel nome. Credo di avere proprio una faccia da Thomas, come hanno potuto compiere l'errore madornale di chiamarmi Toby? Non riesco a ricordare come mai non sono rimasto con la mia vera madre, cosa le sia successo, e perché invece mi ritrovo da tempo immemore con questa famiglia che ha deciso che il mio nome è Toby. Mormorii che a tratti sono riuscito a cogliere nel tempo parlano di un altro fratello che un tempo viveva nella mia stanza. Non sono mai riuscito a capire cosa gli sia successo, i miei pseudo genitori sono molto attenti a non lasciarsi sfuggire notizie al riguardo. Questo fantomatico fratello scomparso è stata la mia ossessione per moltissimo tempo. Ne ho cercato le tracce in ogni angolo della stanza, qualcosa che possa rivelarmi che qualcuno sia stato qui prima di me. Invano. Ma ormai non ha più importanza. Nulla ha più importanza. Poiché stanotte li ucciderò. Questo a causa della prima voce nella famosa lista delle umiliazioni che questa famiglia mi infligge. La solitudine. Ogni giorno li vedo uscire a vivere la propria vita, ognuno con le proprie gioie e i propri dolori. I miei fratelli vanno a scuola, e ogni tanto si innamorano. Solo ogni tanto. Hanno dei buoni amici che vengono spesso in casa, principalmente per godere tutti insieme delle gioie della nuova consolle per videogiochi. Anche i miei genitori hanno una bella vita sociale: i loro colleghi di lavoro sono persone simpatiche e alla mano e spesso sono ospiti per cena a casa nostra. Fanno anche delle belle vacanze insieme, figli al seguito. Quasi tutti almeno, poiché per me non c'è posto in tutto ciò. Non posso uscire dalla mia stanza. Può sembrare strano, ma sono letteralmente prigioniero in una strana, impenetrabile barriera che mi impedisce di uscire. Per molto tempo ho provato a infrangerla, a eluderla, aggirarla, ma non è servito ad altro che causarmi lividi e ferite. Col tempo mi sono rassegnato. Mi calano il cibo dall'alto, dove la barriera sembra non esserci. Per i miei bisogni vi lascio immaginare. Rinchiuso nella mia stanza sono costretto a vedere la loro felicità, e non esiste dolore peggiore. Fossero infelici anche loro potrebbe anche starmi bene. Mal comune mezzo gaudio, giusto? Probabilmente ne avrei anche compassione, e con la consapevolezza che il dolore è una condizione comune a tutti non mi sentirei solo.  Invece lo sono sempre stato. Li vedo tornare dalle vacanze, abbronzati ed esausti, con quella luce negli occhi di chi ha vissuto ogni momento intensamente, forse perfino troppo. Li osservo festeggiare il sedicesimo compleanno di mio fratello maggiore, e vedo la sua euforia nel scoprire cosa nascondeva il misterioso pacchetto incartato ad arte che era il suo regalo: le chiavi della sua prima auto. Li vedo, e basta. Loro mi vedono a malapena, presi dalla danza perpetua che rappresenta le loro intere esistenze, e non mi ascoltano per nulla. Ogni tanto provo a parlare loro, a dire qualcosa, anche di stupido, ma è come se parlassi un'altra lingua, come se dicessi cose che non sono in grado di concepire. Ho provato a lasciare che il tempo cambiasse le cose, sarà solo un periodo mi dicevo, passerà. Non ha cambiato nulla. Il tempo non cambia mai nulla da solo, il lento e costante processo di maturazione è tutto frutto del nostro operato. Così ho deciso di ucciderli. Questo parecchio tempo fa. Nel frattempo mi sono tenuto in forma, facendo molti giri della stanza per allenarmi. Ho programmato come e quando li avrei uccisi tutti, perfino il cane. Il quando, ormai, è stasera. Il come è presto detto: a notte fonda prenderò la rincorsa, sfruttandola per saltare oltre la barriera e uscire finalmente dalla stanza, per la prima volta in vita mia. Poi andrò nelle loro stanze e li soffocherò con un cuscino. Oppure taglierei loro la gola con un coltello. Semplice e veloce. Infine uscirò da questa casa e troverò la mia strada, e la mia felicità. Nel frattempo riposo, concedendomi un breve sonno ristoratore, in attesa che giunga la notte. Riapro gli occhi nell'oscurità avvolgente della notte. Finalmente il momento è arrivato. Mi domando che espressione avranno mentre si renderanno conto che Toby, il figlio dimenticato, si sta prendendo le loro felici vite. Saranno costretti ad accorgersi di me, a preoccuparsi, e a temermi. Mi prendo la mia rivincita, e la mia libertà. Determinato prendo la rincorsa e salto la maledetta barriera che mi ha tenuto prigioniero per tutta una vita. Attraversarla è uno shock tremendo: atterro rovinosamente su un fianco e mi rendo conto di non riuscire più a respirare. Probabilmente a causa di qualche costola fratturata, o chissà cosa. Il mio corpo si dimena nel tentativo di riprendere aria, ma non ottiene altro che sprecare ossigeno prezioso. Provo ad urlare, a dire qualcosa, ma non riesco ad emettere un suono. Morirò in silenzio come sono vissuto. Negli ultimi istanti della mia vita alcune immagini mi scorrono davanti agli occhi, sfocate come un sogno. Vedo mio fratello minore, all'epoca di pochi anni, restare a guardarmi per ore, estasiato da chissà cosa. Vedo mio padre tornare dal lavoro stanco e stressato, ma trovare comunque la forza di sorridermi. Vedo mia madre ridecorare interamente la mia stanza per renderla più accogliente. Tutta la rabbia, la frustrazione e il dolore si accomiatano imbarazzati dal mio corpo, come cocciuti messi di fronte ad un punto di vista diverso dal loro. Un senso di pace prende silenziosamente il loro posto e, nei miei ultimi istanti di vita, ho ancora la forza di sorridere. Come mio padre. Improvvisamente la luce si accende ed appare mia madre con un bicchiere di latte in mano. Evidentemente, nella felicità della sua vita perfetta, anche lei non riesce a dormire per chissà quali pensieri. Nessuno è immune al dolore, né esiste qualcuno in grado di salire abbastanza in alto per impedirgli di raggiungerlo. Tocca tutti, chi più chi meno, e mi rendo conto solo ora che, bene o male, siamo tutti sulla stessa barca.   Mi vede e spaventata corre da me, poggiando il bicchiere di latte su un mobile. Cingendomi con le mani mi solleva con estrema facilità, facendomi stupire, con l'ultimo barlume di coscienza, della sua forza inumana. Sollevandomi urla qualcosa che non riesco a cogliere, qualcosa che suona come: "Caro, anche questo pesce rosso è saltato fuori dalla sua boccia, come quello vecchio. Non credi che dovremmo metterci un coperchio?". Plunf.