lunedì 23 dicembre 2013

Terra!





Mi chiamo Juan Cortez e non sono nulla. Nel vascello dove sono imbarcato, il Marina, c'erano esperti navigatori, marinai, commercianti e un capitano di tutto rispetto, io non sono altro che un semplice mozzo, senza nessuna particolare abilità. Tuttavia, venti giorni fa, tutto è cambiato. Ci trovavamo al largo della costa delle Antille e stavamo tornando in patria dopo aver trattato l'acquisto di una grande quantità di argento sudamericano, quando di notte una tempesta improvvisa ha travolto la nostra nave, facendoci perdere completamente la rotta e lasciando la nave devastata.  Il mattino dopo, usciti ormai dalla tempesta, i danni erano ingenti: la vela era completamente stracciata, il timone rotto e l'albero di mezzana abbattuto. In mezzo all'oceano non avevamo i materiali per riparare i danni, inoltre abbiamo anche perso diversi uomini, scagliati in mare dalle onde o schiacciati dall'albero caduto. Non avevamo modo di tornare a terra, avendo il timone rotto, e anche volendo non sapevamo dove ci trovavamo, il nostro navigatore esperto era stato travolto da una grossa onda ed era finito in mare, sfondando il parapetto del ponte. La situazione era letteralmente disperata, e, come se non bastasse, le poche persone valide rimaste avrebbero abbandonato la nave da lì a poco. Per primo se ne è andato il mio amico Pablo, il miglior marinaio che abbia mai conosciuto, capace di affrontare le peggiori tempeste e gran conoscitore dei mari, nonché delle donne. Quello stesso pomeriggio ha calato una piccola scialuppa in silenzio, preso un po' di viveri e ha iniziato a remare in una direzione apparentemente a caso, fino a sparire completamente. Il capitano, in genere, non gli avrebbe mai permesso di andarsene, eppure non ha fatto né detto nulla, dopo la tempesta si era chiuso nella sua cabina e non ne era più uscito.  Ero rimasto a guardarlo a lungo, anche quando ormai non potevo più vederlo, fumando malinconico del tabacco da quattro soldi. Il mio istinto mi diceva di seguirlo, sentivo che il suo istinto di sopravvivenza e la sua abilità come marinaio gli avrebbe permesso di salvarsi, nonostante le difficoltà. Tuttavia non l'ho fatto, qualunque strada aveva deciso di prendere era la sua, e la sua soltanto. Poi era venuto il turno del cuoco: con la morte nel cuore ha preso tutte le sue cose, i mestoli, le pentole, le spezie, ci ha guardati per un lungo istante come se volesse dire qualcosa. Aveva aperto la bocca, tuttavia non ne era uscito altro che un greve sospiro, così, rassegnato,  aveva preso la penultima scialuppa e come Pablo se ne era andato. L'ultima scialuppa l'aveva presa il commerciante, prendendo tutto l'argento che la scialuppa poteva sopportare, e aveva iniziato faticosamente a remare, non era certo un uomo di fatica. Non aveva alcuna esperienza di navigazione, e credo che andandosene si sia diretto di sua spontanea volontà verso il gelido abbraccio della morte. Tutti noi ne eravamo consapevoli, eppure nessuno aveva provato a fermarlo, l'arroganza e l'antipatia di quell'uomo avrebbero reso vano ogni tentativo di fermarlo. Inoltre ci stava sulle scatole.  Dopo che se ne era andato, avevamo iniziato a guardarci tutti nervosamente, non c'erano più scialuppe con cui andarsene. La situazione, da quel momento, era degenerata. I marinai avevano iniziato a staccare pezzi del vascello per usarli come scialuppe di fortuna, c'era chi usava le assi del pavimento come una zattera, chi le porte, chi diversi barili legati insieme. C'era tanta disperazione, e paura, ma anche determinazione, il buon Pablo aveva dato inizio a quell'esodo disperato. Per ultimo se ne era andato il capitano: senza dire una parola era finalmente uscito dalla sua cabina, portando faticosamente con sé il suo grosso armadio, un armadio orribile e di pessimo gusto, ma galleggiante.  Nonostante la situazione critica eravamo rimasti tutti estasiati dalla dignità e austerità che riusciva a sfoggiare il Capitano abbandonando la sua nave: i suoi passi erano lenti, accompagnati dal suono rotondo delle suole dei suoi stivali che con cadenza marziale calpestavano le assi in legno del ponte, e il suo volto aveva un'espressione severa, di pietra. Probabilmente non era altro che una messinscena, nel suo intimo era spaventato e disperato come tutti noi, ma immagino che, consapevole di riuscire a sopravvivere e tornare in madre patria, non voleva che si sarebbe diffusa la notizia di una sua fuga indecorosa. Certo, sempre che noi vi avremmo mai fatto ritorno. Con l'aiuto dei pochi mozzi rimasti si era fatto calare in mare a bordo della sua scialuppa di fortuna, in compagnia del suo fedele secondo, il cui scopo era naturalmente remare e governare la scialuppa-armadio. Si era portato, inoltre, una grande quantità di viveri e la sua argenteria privata, scelta che non ho mai capito, qualsiasi cosa non sia utile o commestibile non è che un peso inutile in mezzo al mare. Lentamente, a causa del peso, si era infine allontanato anche lui, il capitano Francisco Armando Martinez. Un buon capitano, forse non il più competente, ma aveva la rara, se non unica, capacità di trattare con dignità e rispetto qualunque persona sotto il suo comando, che si trattasse dell'ultimo dei mozzi o del suo secondo in comando. Credo che questo lo rendesse un grand'uomo, degno di onore. Dopo che era sparito all'orizzonte siamo rimasti a lungo in silenzio, come a prenderci il tempo per realizzare che non avevamo più un capitano, né un navigatore, né un cuoco, né un marinaio. Del commerciante potevamo farne a meno. Del nostro equipaggio di esperti marinai e navigatori non eravamo rimasti che noi, sei mozzi senza arte né parte. In quel momento, realizzato questo, qualcosa dentro di me stava nascendo. Non c'era più un equipaggio, né una gerarchia, né un ordine, non ero più un semplice mozzo. Ero un semplice essere umano, e in quanto tale potevo essere qualunque cosa. Potevo essere perfino capitano di quella nave distrutta e senza speranza. Mi ero liberato di un fardello che fino a quel momento non mi rendevo nemmeno conto di avere: ero un uomo libero. Libero e spacciato. Nasceva in me la voglia di combattere, di godermi la libertà scoperta e di essere qualunque cosa volessi. Non avendo nessuna nozione specifica su come riparare la nave, su come governarla e sull'orientamento, ho dovuto improvvisare. Per prima cosa serviva una vela: così, non potendo riparare quella che avevamo, completamente stracciata, ho pensato che anziché avere un'unica, grossa vela, potevo farne tante piccole. Con l'aiuto degli altri ho strappato piccoli drappelli dalla vela, non più grossi del busto di un uomo, e li abbiamo fissati nei posti più svariati. Per quanto riguarda il timone, invece, nessuno era in grado di ripararlo. Eppure Joshua, un giovane mozzo poco più che ventenne, ci aveva stupito: nessuno di noi era a conoscenza di questa sua particolarità, ma è sempre stato appassionato di ingegneria, ed essendo dotato di una mente brillante e sveglia gli basta osservare per capire il funzionamento di ogni cosa. Inoltre la sua mente creativa ha fatto sì che in segreto elaborasse congegni e invenzioni frutto solamente del suo intelletto. Fino a quel giorno aveva sempre taciuto al riguardo, limitandosi al suo ruolo di basso profilo, ma non era più un mozzo, e la sua abilità è stata provvidenziale. Utilizzando solo il materiale presente sulla nave, ossia corde, una scarsa quantità di legname e chiodi, era riuscito ad elaborare e costruire un nuovo sistema per manovrare la nave senza l'uso del timone, sfruttando un meccanismo simile ma molto più semplice ed efficace. Un meccanismo flessibile, capace di resistere agli urti e alle intemperie, ma al contempo solido e robusto. Finalmente eravamo pronti a ripartire. Ma per dove? La nostra più grande paura era prendere la rotta sbagliata e andare in una direzione senza nient'altro che acqua, e onde, e morte. Con i viveri limitati avevamo una possibilità su mille di riuscire a sopravvivere e giungere alla terraferma. Il cibo non era particolarmente un problema: Jacob, un vecchio mozzo ubriacone, rozzo e di maniere brusche, ma di buon cuore, è un ottimo pescatore, ed è riuscito sempre a rimediare qualcosa da mangiare. Avevamo anche una buona quantità di limoni, in modo da non ammalarci di scorbuto. Il problema, per quanto ne fossimo circondati, era l'acqua: nonostante il duro razionamento la quantità che potevamo permetterci era di mezza pinta d'acqua al giorno, e il caldo torrido faceva sì che non era assolutamente sufficiente. Dovevamo decidere in fretta. Quella volta era il turno di Cisco, a stupirci: tutti noi l'avevamo sempre schernito, ritenendolo un ignorante e uno stupido, ma ha l'animo del filosofo, e sempre il suo sguardo si volge alle stelle, in cerca di risposte. Nessuno le conosce meglio del vecchio Cisco, le conosce così bene che è in grado di usarle per orientarsi, ovunque si trovi. E' stato così che, stabilendo con buona precisione dove ci trovassimo e dove si trovasse la terra più vicina, abbiamo preso una rotta precisa, senza mai modificarla. Come uomini liberi ci stavamo realizzando, nessuno di noi era inutile, o superfluo, o semplicemente un paio di braccia forti da poter sfruttare e sostituire in qualunque momento. Ognuno era indispensabile alla sopravvivenza degli altri e, nonostante la tensione, non ci sono stati litigi né altro, eravamo tutti molto uniti. I successivi giorni di navigazione sono trascorsi tranquilli: Fidel si è scoperto un ottimo cuoco, e con i pochi mezzi a disposizione riusciva a fare del pescato di Jacob degli ottimi manicaretti, semplici ma molto energetici. Gonzalo, invece, si è dimostrato un buon, buonissimo carpentiere, e passava il tempo a rinforzare la nave, sfruttando tutto il legname superfluo che riusciva a trovare. Cisco ha continuato a mantenere la rotta, certo che presto avremmo raggiunto terra. Tutto è andato bene fino a due giorni fa: proprio quando sembrava eravamo finalmente vicini alla tanto agognata terra, verso mezzogiorno siamo incappati in una nuova tempesta, ancora più forte di quella che aveva distrutto il nostro equipaggio. Onde altissime sembravano voler capovolgere ad ogni costo la nave, impattando ogni volta con più forza il fianco della nave, e un vento furioso scuoteva le vele con un accanimento tale che credevamo di essere vittima dell'ira di una qualche divinità esotica. La tempesta durò tutto il giorno e tutta la notte, e ognuno di noi ha fatto il possibile per resistere: Cisco era al timone, e lottava con tutte le sue forze per mantenere la rotta. Io mi occupavo di ammainare più di metà delle vele, in modo che non si stracciassero, e gli altri gettavano fuori l'acqua imbarcata. Eravamo sfiniti, assetati e affamati, e la notte abbiamo smesso di lottare, abbandonandoci al nostro destino, avevamo fatto tutto ciò che era in nostro potere, dopotutto. Ci siamo ritirati sotto coperta e abbiamo pregato con tutte le nostre forze che la tempesta cessasse presto. Il mattino ci siamo svegliati al dolce, lieve rollio della nave, segnale che il mare era ormai calmo. Nessuno di noi aveva il coraggio di uscire in coperta e vedere i danni che la nave aveva subito. Eravamo ancora a galla però, ed eravamo ancora vivi, un buon segno. Sono stato il primo a decidere di uscire, e non riuscivo a credere ai miei occhi: la nave aveva tenuto. Le vele non si erano stracciate, il timone funzionava ancora bene e i rinforzi di Gonzalo hanno fatto sì che i danni fossero pochi o nulli. Allora abbiamo cantato e ballato euforici, a lungo, alla luce di un'alba di un giorno nuovo e ricco di speranza. Oggi, dopo venti giorni di navigazione, riesco a scorgere una linea inconfondibile all'orizzonte, e urlo ai miei compagni: "Terra! Terra!". 

giovedì 19 dicembre 2013

Il vecchio e il treno



Non sono esattamente di buon umore, questa mattina, tuttavia aver trovato un posto a sedere vicino al finestrino riesce a migliorarlo, almeno un po'. Mi guardo intorno circospetto, avrei voglia di fiondarmi sull'unico posto libero come una belva a digiuno da settimane, ma la cortesia fa il signore, e voglio verificare che non ci sia qualcuno che ne abbia bisogno più di me. Vedo solo giovani manager, sempre al cellulare, o qualche universitario intento a leggere e ascoltare la musica nelle sue grandi cuffie, per cui mi siedo spensierato. Mi domando il motivo della mia fortuna, possibile che nessun'altro avesse notato, prima di me, il sedile libero? Dei rumori sommessi provenienti dalla mia sinistra mi fanno intuire che l'avevano notato eccome, ma l'avevano evitato come un fastidioso piazzista. Nel sedile a fianco del mio un uomo piuttosto avanti d'età, sui settant'anni, singhiozza sommesso, le mani a coprire il volto e i gomiti appoggiati sulle ginocchia, chiuso come un riccio. Il mio umore cade in un attimo sotto la suola delle mie scarpe. Mi guardo intorno e le persone sedute vicino a noi fanno finta di niente, ascoltano la musica nelle cuffie ad un volume molto alto o fingono di dormire, per difendersi dal suono dei singhiozzi. Senza che me ne accorgessi l'uomo ha smesso di singhiozzare e mi guarda di sottecchi. Il suo sguardo folle mi fa trasalire, e mi rendo conto che ormai non posso più fare finta di niente, sa che l'ho visto. Continua a fissarmi, con i suoi occhi grigi arrossati dal pianto, e non riesco a distogliere lo sguardo. Per un attimo ho l'impressione che sia sul punto di gettarsi su di me come una furia e ogni fibra del mio corpo vibra di tensione. Poi all'improvviso si rilassa, e con lui il suo sguardo, che si abbandona a guardare il vuoto di fronte a noi. A mia volta mi rilasso anche io, e mi metto a guardare fuori dal finestrino: verdi campi e paesini sfrecciano velocemente, forse anche loro devono correre al lavoro, come tutti noi. All'improvviso l'uomo borbotta qualcosa, troppo piano e troppo confusamente perché io possa capirlo, ma sono sicuro che si sia rivolto a me, e una sottile tensione torna a pervadere il mio corpo, mi sono rilassato troppo in fretta. "Come ha detto, scusi?" domando io, cercando di mantenere il più possibile un tono di voce rilassato e pacato, per non agitarlo ulteriormente. "E' stato il treno a farmi piangere, sai figliolo?" scandisce meglio lui, e per un attimo vado nel pallone. Cosa diavolo vorrà dire? E cosa vuole che gli dica? Devo cercare di rispondere nella maniera più consona, senza dargli troppa corda però. In che razza di situazione mi dovevo ficcare di prima mattina! "In che modo l'avrebbe fatta piangere, amico mio?"rispondo infine, cercando di imprimere nel tono della mia voce comprensione e amicizia. L'uomo mi guarda, incerto e un po' perplesso. Forse si immaginava che l'avrei ignorato, come chissà quanti altri prima di me, e ora è titubante se raccontare o meno la sua storia. Ma ormai non può certo tirarsi indietro, come non posso farlo io. E' come se fossimo entrambi sullo stesso treno, ingovernabile e senza freni, lanciati a folle velocità verso chissà dove. Rassicurato dalla mia risposta positiva, l'uomo sembra finalmente rilassarsi e lasciarsi andare, e inizia a parlarmi sottovoce, come un bambino che rivela l'ubicazione del suo fortino segreto. "Probabilmente mi prenderai per pazzo, o ancora più probabilmente l'hai già fatto" inizia l'uomo con un'espressione sorniona, "ma da giovane prendevo spesso il treno, quasi ogni giorno, come immagino faccia tu. Ai miei tempi era diverso rispetto ad oggi, nonostante fossimo in pieno boom economico ancora molti non possedevano un'auto, così la maggior parte delle persone si muoveva in treno. Io non ero certo diverso, ed ero pendolare come molti allora e come molti altri oggi. Ho fatto il pendolare per vent'anni, sempre sulla stessa tratta e sempre per lo stesso lavoro, ero venditore di aspirapolvere porta a porta." L'uomo rimane un attimo in silenzio e inspira malinconico, mentre io lo guardo e mi domando dove vorrà andare a parare. "Era un gran bel lavoro, sai? A quei tempi quasi nessuno possedeva un aspirapolvere, per cui era facile venderli, e poi non c'era tutta la diffidenza che c'è oggi verso gli estranei: venivo sempre invitato ad entrare e mi offrivano sempre qualcosa, in vent'anni mi hanno offerto veramente di tutto. Pensa che una volta una signora svedese mi offrì del salmone affumicato! Alle 10 del mattino!" Le sue parole mi fanno riflettere e sentire un po' in colpa: ha colto nel vivo dicendo che ai tempi non c'era tutta la diffidenza che esiste oggi. Un po' mortificato, lo incito ad andare avanti, mostrandomi interessato e in attesa che prosegua il suo racconto. "Pazzesco!", commento, "il salmone affumicato al mattino? E lei cosa ha fatto? Lo ha mangiato?". L'uomo mi guarda per qualche secondo, serio, e per un attimo ho paura di aver detto qualcosa che non avrei dovuto dire. "Certo che l'ho mangiato!", esclama poi lui, "hai mai provato a dire di no ad una signora svedese?". Non riesco a capire se sia una battuta o meno, o se mi sta prendendo in giro, o se sia solo un pazzo che parla a vanvera e io sia ancora più pazzo a dargli retta. Nel dubbio ridacchio, me la ridacchio di gusto. "Certo", dichiaro ridacchiando ancora come uno sciocco, "non si può proprio dire di no ad una signora svedese, magari anche bella in carne, e con due mani che le usano per piallare i mobili Ikea". "Come ti permetti?", esclama lui con un tono di voce più forte e aggressivo, "mia moglie è svedese, di Ludvika, per la precisione!" E' come prendersi uno schiaffo in faccia. La sua reazione improvvisamente aggressiva mi fa sussultare e velocizza il mio battito cardiaco, la mia tranquillità di poco fa sparisce completamente. "Guarda che ti prendo in giro, giovane!", dice ridacchiando l'uomo, "mia moglie è di Stoccolma!". "Andiamo bene", penso tra me è me, "quest'uomo è davvero matto come un cavallo!". Un forte senso di disagio prende possesso di me, sono molto tentato di alzarmi e cambiare carrozza, perfino di scendere dal treno, se necessario. Ma so che non è possibile: come mi ero reso conto poco fa, ormai ero invischiato in questa storia, senza possibilità di tirarmene fuori senza contrariarlo. A volte detesto la mia incapacità di contrariare gli altri, anche quando mi mettono a disagio, non ne sono proprio capace. Non è la prima volta che il pazzoide di turno, vedendo che gli do' corda e ascolto, inizia a parlarmi ininterrottamente. Discorsi sconclusionati, senza né capo né coda, ai quali non riesco a porre una fine. L'uomo sembra essersi reso conto che qualcosa non andava, perché dopo poco aggiunge: "scusami, mi dispiace se ti sei offeso, non volevo prenderti in giro. Non ti preoccupare, adesso ti lascio in pace e non ti disturberò più, non darmi peso." Le parole di scuse sincere dell'uomo mi addolcirono, a volte basta davvero poco per addolcire una persona, poche parole col cuore in mano. "Ma no, si figuri", mormoro io, "vada avanti, la prego, mi ha incuriosito tantissimo". L'uomo sorride, sembra contento. "Va bene, allora vado avanti", dice senza smettere di sorridere. "Come ti stavo dicendo", prosegue poi, "ho fatto il pendolare per vent'anni, quando ero giovane. Sai, col tempo, prendendo così spesso lo stesso treno, cominciai a prenderci confidenza. Un bel giorno scoprii che, per chi ha orecchie per ascoltare, il treno ha tante di quelle storie da raccontare che non basterebbe una vita per sentirle tutte." Dopo aver pronunciate quelle parole, che unite insieme non riesco a capire, mi fissa serio, a scrutare sul mio volto il riflesso di ciò che accade nel profondo della mia mente. Come sarebbe a dire che il treno ha delle storie da raccontare? I treni, da quel che ne so, non sono che delle macchine, e le macchine non hanno mai raccontato un bel niente. Se fossimo in un fumetto sulla mia testa ci sarebbe un punto interrogativo grande quanto uno spartitraffico, e questo non sfugge alla sua attenzione, anche senza punto interrogativo. Giusto per far capire ancora meglio la mia confusione, gli domando: "in che senso il treno ha delle storie da raccontare?". L'uomo sgranò gli occhi, come stupito dalla mia domanda. "Ma è ovvio, ragazzo mio!", dice l'uomo con il tipico tono di voce di chi sta spiegando qualcosa ad un bambino, "il treno mi parlava! Hai idea di quante persone salgono su di un treno? Di quante amano, di quante sognano, di quante soffrono su un treno, su quel treno?". Il treno gli parlava? Ecco, se prima potevo avere qualche dubbio ora ne sono certo: è davvero matto. Ma sembra un brav'uomo, e dopotutto, sotto sotto, io non credo nell'esistenza dei matti. Solo perché non posso capire il suo punto di vista non vuol dire che sia matto. Per cui continuo: "certo, su un treno salgono centinaia di persone ogni giorno, e chissà quante, forse milioni, ogni anno, e ognuna di loro ha una storia. Mi piace pensare che di tutti gli estranei che vedo ogni giorno sul treno molti, moltissimi sono innamorati. Molti sono anche quelli che hanno dei bambini, per i quali fanno tanti sacrifici. E molti sono quelli che hanno delle storie che a vederli così, un po' imbambolati sui loro comodi sedili, non mi immagino nemmeno. Quindi, se ho ben capito, il treno le raccontava queste storie". L'uomo mi guarda entusiasta, sembra contento della mia domanda, del fatto che forse, finalmente, inizio a capire cosa sta cercando di dirmi. Capisco come possa sentirsi, a volte è capitato anche a me. Sono tendenzialmente una persona timida per ciò che considero personale, così quando cerco di confidare qualcosa a qualcuno faccio dei discorsi molto lunghi, come a giustificarmi. Mi capita che se la persona alla quale mi sto confidando non capisce dove voglia andare a parare mi scoraggio, e finisco per inventarmi qualcosa sul momento per non dire ciò che effettivamente volevo dire. Mi capita anche, come sta succedendo all'uomo seduto al mio fianco, di sentirmi entusiasta e felice se invece quella persona segue il mio discorso, e magari finisce per concludere egli stesso ciò che voglio dirgli, senza bisogno che glielo riveli. Facilita molto le cose, e mi fa capire che quella persona mi capisce davvero, mi rende felice pensare che ho fatto proprio bene a confidarmi. Così l'uomo, incoraggiato, sembra sbottonarsi completamente, e risponde: "Proprio così, ragazzo mio. Per molti anni il treno mi ha raccontato le storie più incredibili, storie che non trovi nei libri bestseller né nei migliori film, storie che probabilmente nessuno a parte me, se non i diretti interessati, conoscerà mai. Una persona molto speciale mi disse, una volta, che è nella realtà che si celano le storie più affascinanti, incredibili e straordinarie. Basta solo aver orecchio per sentirle, come hai fatto tu stamattina." Questo complimento inaspettato mi fa molto piacere, e mi fa sentire speciale. "Così, ogni mattina, mi chiudevo nel bagno del treno, e lui mi raccontava storie di ogni genere", prosegue subito, senza darmi il tempo di compiacermi troppo per il complimento ricevuto, "non prima, certo, di aver mostrato il mio biglietto al controllore. Col tempo le persone che prendevano il mio stesso treno iniziavano a ricordarsi di me. Mi ricordavano come quello con la dissenteria, che sta chiuso quasi tutto il viaggio in bagno. Altri pensavano che mi drogassi, oppure che fossi una sorta di spia, lì chiuso in bagno a borbottare. Viste da fuori le nostre azioni possono trovare mille interpretazioni diverse, e mi divertiva scoprire che spiegazioni si davano del fatto che ero sempre chiuso in bagno." L'empatia è davvero strana. A volte basta che una persona mostri il suo lato più intimo e fragile per trovare la totale comprensione. Credo che sia quello che sta accadendo a me in questo preciso istante. Salito su questo treno, nemmeno mezz'ora fa, ero di pessimo umore, e fortemente infastidito da questo tizio che di prima mattina si prende la briga di piangere, non abbastanza silenzioso perché non potessi sentirlo. Ora tutto ciò che mi sta raccontando lo sento come fossi stato io, molti anni fa, a viverlo in prima persona, e mi sembra così sensato e ovvio che, se qualcuno dicesse il contrario, sarebbe come dire che il cielo è verde. A volte è rosso, o nero, o grigio. Verde mai. Senza che io dica niente, lui prosegue la sua storia: "un giorno gli diedi anche un nome, sai? Quando glielo chiesi mi disse una sorta di codice numerico con cui era stato registrato. Gran brutto nome, e difficilissimo da ricordare. Così gli chiesi se potessi chiamarlo Carlo, e a lui piacque molto, così da quel giorno lo chiamai così. Per vent'anni ogni mattino mi chiudevo nel bagno e Carlo mi raccontava una storia, sembrava non finirle mai, difatti in vent'anni non mi raccontò mai la stessa storia, neanche due storie simili. Quelli sono stati i vent'anni più felici della mia vita, il mio lavoro andava benone e io e mia moglie ci amavano ogni giorno di più. Tuttavia la mia felicità stava per finire.". Completamente rapito dal suo racconto, sono ansioso di scoprire cosa sia successo. "Come mai stava per finire? Cos'è successo?", domando delicatamente. Lui mi guarda triste, una lacrima sembra indecisa che cadere o meno, poi emette un forte sospiro e mormora: "mia moglie, dopo vent'anni di matrimonio, venne a mancare. Un cancro incurabile, dissero i medici. Per me fu una cosa così grande che non avrei saputo definirla, cancro lo ritengo riduttivo.". L'uomo si guarda triste le mani, in silenzio. Le mani che l'hanno stretta, abbracciata e accarezzata chissà quante volte. Mi sento molto triste anche io, e sinceramente non so cosa dire. Credo che in questi casi la cosa più rispettosa da fare sia rimanere in silenzio, qualunque cosa possa dire sarebbe la solita frase fatta, indelicata e sfruttata al punto da divenire vuota, senza significato. Dopo essere rimasto qualche secondo il silenzio, l'uomo riprende il suo racconto, come a risparmiarmi il compito di dover dire qualcosa di appropriato. "Quell'anno fu molto duro, e io andai molto poco nel bagno a parlare con Carlo, non riuscivo a pensare a niente. Quando il primo dolore, quello dell'impatto, passò per lasciar posto ad una profonda, malinconica tristezza, ripresi lentamente a dialogare con lui, e ad ascoltare le sue storie. Tuttavia, diversamente da prima, stavolta era più lui ad ascoltare ciò che avevo da dire, e mi permetteva di sfogare il mio dolore. Il quel terribile periodo la persona che mi stette più vicino fu un treno, pazzesco a dirsi, no?" "No, non direi proprio", gli rispondo io, sorridendogli mesto. "Già, già" aggiunge lui, sorridendo triste a sua volta. A questo punto devo dedurre che, per qualche motivo che ancora non mi ha rivelato, smise di ascoltare le storie del treno. Incuriosito, ma cercando di usare il massimo tatto dato il delicato argomento, gli domando cosa fosse successo dopo. "Sai, mio giovane amico, un giorno volli chiedere a Carlo di raccontarmi una storia in particolare: la sua. Lui mi disse allora che non aveva una storia interessante, era solo un treno che faceva la stessa tratta da vent'anni, non sapeva niente del resto del mondo e d'altronde non l'avrebbe mai visto. Dopo la morte di mia moglie per me era diventato doloroso vivere a casa mia, e nella mia città. Troppi bei ricordi. Non credo tu possa capire, ragazzo mio, e mi auguro tu non debba mai farlo, ma era insopportabile vivere nella casa dove fino poco tempo prima ero stato felice con lei. Così come mi era diventato insopportabile passeggiare nella città senza di lei, tutto mi parlava di lei. Certo, avevo sempre la mia famiglia, e i miei amici. Ma lei era il fulcro attorno il quale girava la mia esistenza, le solide fondamenta su cui era costruita la mia intera vita. Senza di lei il castello di carte della mia vita crollò silenziosamente, e persi interesse verso tutto ciò che mi circondava. Così presi una decisione." "Che cosa decise?", gli domando. "Beh, detto così può sembrare stupido", risponde lui, "ma decisi che da quel giorno avrei girato il mondo, per poi poterlo raccontare a Carlo. Così il giorno stesso presentai le dimissioni, ritirai tutti i soldi che avevo da parte e partii. Andai in lungo e in largo per il mondo, senza una meta precisa, ascoltando mille storie nuove e interessanti, attraversando montagne, fiumi, deserti e oceani. Ogni tanto mi stabilivo da qualche parte e lavoravo qualche tempo, per guadagnare altri soldi e poter continuare il mio viaggio. Per tutto questo tempo non ho fatto altro che viaggiare. Ho usato tante valute diverse, parlato tante lingue, e non ho più amato nessun'altra donna. Solamente tanti buoni amici sparsi per il mondo. Se chiedi di me a Burgos, in Spagna, tutti mi conoscono. Non avendo più alcun legame, ero libero di andare ovunque, libero. Naturalmente lei mi manca sempre, ogni giorno. Ma, nonostante tutto, non posso lamentarmi della mia vita, e so che lei non avrebbe voluto che mi abbandonassi al dolore. Pochi giorni fa decisi che era tempo di ritornare, per cui eccomi qui. Nel frattempo molte cose sono cambiate, i miei genitori sono morti e la ditta in cui lavoravo non esiste più." Totalmente affascinato dalla sua vita avventurosa, lo guardo interessato. Ci sono tante cose che vorrei chiedergli, ma la mia fermata è vicina, e voglio lasciarlo finire di raccontare la sua storia. Che storia incredibile! "Per cui come mai prima ha detto che è stato il treno, a farla piangere?". Lui alla mia domanda emette un lungo sospiro, poi appoggia la testa sul sedile e chiude gli occhi, rimanendo a lungo in silenzio. Nel frattempo mi guardo un po' intorno: il treno si è svuotato senza che me ne accorgessi, e rimangono solo poche persone. Sono sempre fra gli ultimi a scendere, poiché la mia è la penultima fermata, ed è piacevole godersi l'ultimo pezzo di viaggio con solo pochi altri passeggeri, crea come un'atmosfera di intimità e tranquillità. Finalmente, dopo una lunga pausa, sospira: "vedi, la tratta che faceva Carlo era proprio questa. Solo che questo treno non è Carlo. Quando sono tornato sono venuto subito in stazione per incontrarlo, ma al suo posto arrivò un altro treno, nuovo fiammante. Così sono andato a raccogliere informazioni e mi hanno detto che era ormai un treno troppo vecchio, l'hanno rottamato e ora si trova in un deposito ferroviario. E' morto anche lui. Non ho nemmeno potuto raccontargli la mia storia. Ieri sono riuscito a scoprire dove si trova il deposito dei vecchi treni abbandonati, così stamattina gli ho portato dei fiori. Poi me la sono data a gambe, siccome non sono più un giovanotto temevo che gli passasse per la testa di rottamare anche me. Ti sembrerà sciocco, ma ho voluto più bene a quel treno che a tante persone. Per quello piangevo." Senza dire nulla gli do' una pacca sulla spalla, e in qualche modo cerco di trasmettergli tutta la mia comprensione. "E ora cosa farà?", gli domando dopo qualche minuto in silenzio. "Cosa farò?", risponde aggrottando la fronte, "credo che racconterò il mondo agli altri treni, in memoria di Carlo. Chissà, forse in futuro le storie che racconteranno le avranno sentite da me. Mi sembra una buona cosa". "Davvero un'ottima cosa", rispondo io in conclusione. Poi guardo fuori, e mi rendo conto che siamo arrivati alla mia fermata. "Questa è la mia fermata, devo scendere", gli dico sorridendo. "Vai ragazzo, grazie per la bella chiacchierata, mi ha fatto piacere parlare con qualcuno. Ricordati sempre che se si ha orecchi per sentire si possono ascoltare storie incredibili!". "Me ne ricorderò, non si preoccupi." E' tempo di scendere, dopo il viaggio più interessante che abbia mai fatto. Mi alzo, prendo la mia valigetta e andandomene faccio un gesto di saluto al mio compagno di viaggio. Mentre sto per andare all'uscita, l'uomo aggiunge, facendomi l'occhiolino: "ah, per la cronaca, questo treno si chiama Betti".
  

venerdì 13 dicembre 2013

La Doccia - capitolo 4 (ed ultimo)



Chiusi gli occhi e quando li riaprii mi ritrovai nuovamente nella foresta di poco tempo prima. La situazione sembrava cambiata: se durante la mia prima venuta il cielo poteva definirsi opprimente, ora sembrava decisamente minaccioso. Grosse nuvole nere marciavano sul cielo come eserciti che sparavano tuoni e fulmini. C'era un forte vento che sollevava un gran polverone, era fastidioso tenere gli occhi aperti. Guardandomi intorno potei constatare che mi trovavo più o meno nello stesso punto in cui mi risvegliai la prima volta. Non era esattamente lo stesso, però, era differente principalmente per due particolari: poco distante da dove mi trovavo c'era una sagoma rettangolare, coperta da un telo nero, con al suo fianco la statua vivente della radura. Come la prima volta aprì gli occhi quando mi avvicinai e parlò immediatamente: "sono felice di constatare che hai capito il perché tu sia qui. Tuttavia non pensare di poter tornare a casa così facilmente". Queste parole mi misero una tensione fortissima, percepii una velata minaccia nella sua voce che mi fece pensare che sarebbe stato lui a bloccarmi la strada del ritorno. Non si trattava di niente di così semplice. "Ora avrai la possibilità di compiere una scelta, una scelta molto importante" continuò la statua. "Avrai la possibilità di scegliere se tornare alla doccia e rimanervi per tutta la vita oppure lottare per tornare a casa." Così dicendo tolse il telone scoprendo una copia perfetta della doccia. Lo fissai in silenzio, chiedendomi dove volesse arrivare a parare. "Se decidi di fermarti qui ed entrare in questa doccia, non avrai più la possibilità di uscirne. Dall'altra parte della foresta, nella radura dove ci incontrammo l'altra volta, troverai una seconda doccia. Quella ti riporterà a casa" Appena terminò di pronunciare la frase sorrisi felice e tirai un sospiro di sollievo, la statua però mi fulminò con lo sguardo e il mio sorriso si spense. "Non credere che sarà una piacevole passeggiata come la scorsa volta", annunciò con voce grave. "Qualunque cosa incontrerai nel cammino cercherà in tutti i modi di fermarti. Gli animali, il cielo e la foresta stessa saranno contro di te. Dovrai correre come il vento senza mai voltarti indietro, oppure morirai. Puoi scegliere se non correre nessun pericolo e rimanere sospeso in un limbo, una pseudo vita senza nessuna prospettiva, nessuna speranza e nessuna uscita, oppure lottare per tornare alla tua vita e farne ciò che preferisci". Non riuscii a dire nulla. Sentivo in lontananza ululare, ringhiare e scalpitare e l'unica cosa che riuscivo a fare era fissarlo sgomento. Perché doveva essere così difficile? Poi mi tornò in mente ciò che avevo pensato mentre parlavo con l'uomo dell'osteria: "anche le difficoltà nella vita aiutano ad essere felici". Una vita chiuso in una doccia, anche con tutti quegli strani shampoo e bagnoschiuma che ti fanno viaggiare in posti sconosciuti, non avrebbe avuto alcun senso. Decisi quindi di rischiare per darglielo io stesso, di attraversare l'immenso mare tempestoso alla ricerca dell'angelo. Lui sembrò essersi accorto della risoluzione nel mio sguardo, e annuì con la testa, sorridendo. Poi disse: "se non avessi compiuto questa scelta, tutto ciò che hai imparato fino ad oggi sarebbero solo parole vuote, senza significato. L'ultima prova consiste nel metterle in pratica. Poi qualunque difficoltà incontrerai nella vita sarai in grado di affrontarla. Magari non di vincerla, ma affrontarla. Ci vuole un grande coraggio a scegliere di vivere fino in fondo la propria vita, sono in molti che decidono di non farlo per poi finire qui, ma sono sicuro che non ci rivedremo mai più, io e te. La felicità è un bene prezioso, e come ogni cosa preziosa non si trova certo nell'orto. Vai, e non ti voltare: loro arriveranno presto. Corri". Senza farmelo ripetere due volte annuì veemente e iniziai a correre. Dopo poco ripensai alle sue parole e mi chiesi a chi, o cosa, si riferisse con quel "loro". Non tardai certo a scoprirlo. Dopo poche centinaia di metri iniziai a sentire degli ululati intorno a me, dapprima lontani e attutiti, poi sempre più vicini. Infine, eccoli. Saranno stati almeno una dozzina ed erano grossi come vitelli, sembravano usciti dal più profondo e meschino girone degli inferi. Avevano più o meno l'aspetto di lupi, ma erano più robusti e muscolosi, con occhi ardenti come braci e le zanne grosse come coltelli. Non erano certo lì per fare una passeggiata. Erano lì per fermare me. Erano dannatamente veloci e poco dopo mi erano già alle calcagna, sentivo il loro fiato caldo e maleodorante sul collo e ogni tanto qualche artigliata fendeva l'aria e mi lacerava i vestiti. Non ricordo di essere mai stato così terrorizzato in vita mia. Cercai di lanciargli contro ogni cosa incontravo per strada, che fossero  rocce, rami o bastoni, ma non li rallentavano nemmeno. Ero disperato: dopo tutta la mia risoluzione sarebbe finita così? Altri due si aggiunsero a quelli già presenti, la situazione era sempre più disperata. Il primo cercò di saltarmi addosso per buttarmi a terra, ma riuscii a vederlo con la coda dell'occhio e mi abbassai in tempo, facendolo passare sopra la mia testa. Andò a sbattere contro un altro e iniziarono a litigare e a scannarsi tra loro, un bel colpo di fortuna. Tuttavia la fortuna durò poco: anche il secondo passò all'attacco e con un fendente mi colpì alla schiena, lacerandomi con i suoi artigli affilati. Il colpo mi fece cadere in avanti e feci un paio di capriole, tuttavia non persi velocità e riuscì incredibilmente a riprendere la corsa senza fermarmi. Sentivo che non potevo correre ancora per molto: il colpo e la lunga corsa mi avevano completamente spezzato il fiato. Le bestie erano ancora numerose e non credo avrebbero avuto il fiato corto per un bel po', così prima che potessero travolgermi mi arrampicai sopra un albero per salvarmi. Mi sedetti sopra un alto ramo e subito le bestie circondarono l'albero, in modo da rendermi impossibile scendere. Eccomi di nuovo bloccato. Ripresi fiato a lungo, sperando che si sarebbero stancati e se ne sarebbero andati, tuttavia non si mossero da sotto l'albero. Non potevo restare lì sopra per sempre, dovevo trovare un modo per liberarmi di loro. Mi guardai intorno in cerca di una via d'uscita e scorsi in lontananza un enorme roveto, fitto e acuminato, dove le grosse bestie non avrebbero potuto seguirmi. Era molto, troppo distante. Ero ferito e sicuramente mi avrebbero ucciso prima di riuscire ad avvicinarmici. Poi un tuono fermò i miei pensieri: un fulmine colpì un ramo vicino al mio, che prese subito fuoco. Lì ebbi un'intuizione: il fuoco avrebbe potuto tenere le bestie alla larga abbastanza da farmi raggiungere il roveto. Era solo un'idea, ma decisi di provare. Spezzai un grosso e robusto ramo e ne misi un'estremità sul fuoco, in modo da creare una torcia. Senza pensarci due volte mi lanciai giù e iniziai subito a correre e le bestie si lanciarono immediatamente al mio inseguimento. Roteando il bastone infuocato riuscì a tenerle alla larga, colpendone anche alcune. Le altre presero quindi più distanza per evitare di finire nel raggio d'azione del mio bastone. Il roveto era sempre più vicino quando all'improvviso, dopo tanto roteare, il fuoco si spense e le bestie ne approfittarono subito per riavvicinarsi. Mancavano pochi metri quando arrivò un secondo fendente, stavolta alla spalla sinistra, che mi scaraventò a terra. "E' la fine", pensai. Le bestie fameliche mi circondarono digrignando i denti e pronte a saltarmi al collo, creando un largo cerchio intorno a me. Fu un momento strano. Non ci fu nessun film della mia vita, probabilmente quel giorno le sale erano chiuse. Non pensai a niente, nonostante da lì a pochi istanti la mia mente avrebbe smesso per sempre di farlo non mi venne in mente niente, nemmeno una preghiera, o una maledizione. Mi limitai a fissare quelle orride bestie dritte nei loro fiammeggianti occhi, cercando perlomeno di andarmene con dignità. Che dignità ci fu in tutto ciò? All'improvviso un secondo fulmine cadde, proprio nello spazio tra me e loro, facendole trasalire e allontanare di qualche metro. La mia mente vuota fu come trapassata da quel fulmine, probabilmente non ci avrei fatto caso se fossi stato intento a guardare un film, dopotutto, noioso. Senza indugiare mi alzai e ripresi a correre, lanciandomi nel roveto. Le mostruose fiere furono scosse quel secondo in più che bastò ad avere un discreto vantaggio su di loro. Sentì delle fauci chiudersi a pochi centimetri del mio polpaccio, ma riuscì a gettarmi tra i grossi rami spinosi. Le bestie provarono ad entrare anch'esse ma non trovarono nessun varco, così rimasero appena fuori. Probabilmente avrebbero ben presto trovato un pertugio in cui entrare, per cui decisi di non soffermarmi troppo e proseguire. Il salto nel roveto mi lacerò tutto il corpo, specialmente le braccia, che misi a protezione davanti al volto. Ero totalmente distrutto, senza fiato e con le gambe doloranti per la lunga corsa. La radura era ancora piuttosto lontana ed ero certo che avrei trovato altre brutte sorprese più avanti. Mi allontanai con i loro ringhi di sottofondo, probabilmente imprecazioni, e attraversai di fretta il roveto deciso a farla finita. Poco dopo, incredulo, mi ritrovai di fronte ad un impetuoso fiume. Ero sicuro che l'altra volta non ci fosse, eppure era lì, spumeggiante rabbia. Non avevo altra scelta, dovevo attraversarlo. La corrente sembrava troppo forte da permettermi di guadarlo, dovevo trovare qualche soluzione. Provai ad entrare e muovere qualche passo, l'acqua mi arrivava poco più in alto della vita, ma era impossibile rimanere in piedi e non farsi trascinare. Era gelata come il più profondo girone infernale, ove tutto è ghiaccio, immobile e immutabile. Riuscì faticosamente a tornare sui miei passi e mi sedetti sulla sponda erbosa a riflettere sul da farsi. Notai parecchi grossi sassi sulla riva, pesanti almeno venti chili che potevano fare al caso mio. Pensai che l'unico modo per non farsi trascinare fosse quello di trasportare a braccia un grosso sasso, in modo da essere più pesante e stabile. Decisi di provare. Presi dunque un grosso sasso dalla forma ovale, parecchio pesante, e tenendolo ad altezza della vita mi immersi nel fiume. Notai che effettivamente riuscivo a camminare e a stare in piedi, però non ero sicuro di riuscire a portarlo per tutto il tempo della traversata. Affrettai il passo e giunto oltre la metà mi resi conto che l'acqua mi arrivava già al petto, era molto più difficile non farsi trascinare. All'improvviso la pietra mi scivolò dalle mani e cadde sul fondo, mancandomi di poco il piede. La corrente mi trascinò via subito nonostante tutti gli sforzi che feci per rimanere fermo. Provai a nuotare controcorrente ma il massimo che riuscì ad ottenere fu controbilanciare la spinta della corrente e non muovermi di un metro. Dovevo trovare un altro metodo. Se oppormi ad essa era inutile, forse assecondarla sarebbe servito a qualcosa. Provai dunque a lasciarmi andare e a muovermi in maniera obliqua, in modo da avvicinarmi sempre più all'altra sponda. Si rivelò un metodo efficace, ben presto mi ritrovai sull'altra riva, tuttavia il prezzo fu che nel frattempo la corrente mi aveva trascinato ben lontano da dove ero partito, e mi toccò camminare per tornare al punto di partenza. Rimaneva comunque un gran risultato: mi ritrovai sulla sponda opposta. Ero al limite delle forze ma mi sentivo purificato da quel bagno inaspettato. Ormai la radura doveva essere vicina, all'incirca un paio, o poco più, di chilometri. Sentirmi così vicino a casa rese la distanza molto più lunga, fu come se i chilometri si fossero moltiplicati. Avevo l'impressione di non muovermi affatto. Qualcosa intorno a me, tuttavia, si muoveva. Dapprima non ci feci molto caso, ma via via che i movimenti si fecero più evidenti e spavaldi notai che i rami degli alberi, già di per sé molto fitti, si intrecciavano e si infittivano, rendendo il passaggio sempre più difficoltoso. Ogni tanto qualcuno mi colpiva perfino, facevano un male cane. Mancavano poche centinaia di metri alla radura secondo i miei calcoli e la foresta sembrava richiudersi intorno a me. I rami erano sempre più fitti ed il passaggio era davvero difficoltoso, il buio sempre più intenso. Dovevo sbrigarmi, altrimenti non sarei più riuscito a passare. Iniziai a correre, incurante del movimento repentino dei rami, inciampando più volte. Iniziai a scorgere la luce che segnalava la tanto ricercata radura quando il movimento dei rami si fece ancor più violento, e il loro intreccio più fitto. Mi feci strada a forza, spezzando rami a destra e a manca, ma più ne spezzavo più ne comparivano.  Improvvisamente una mano lignea mi afferrò la caviglia e caddi in avanti, con le sue dita che stringevano sempre di più. Disperato iniziai a colpire con forza quella strana mano, che infine si ruppe e lasciò la presa. Nel frattempo, però, i rami si erano ulteriormente infittiti, e oramai, a pochi metri dalla salvezza, mi trovai di fronte ad una strada bloccata. Provai a spezzare qualche ramo ma erano duri come il ferro, impossibile farsi strada. In basso però vidi filtrare della luce, un raggio che filtrava da uno stretto passaggio a livello del terreno. Nonostante la mia claustrofobia provai il tutto per tutto e accovacciandomi strisciai per quello stretto passaggio. Ne uscì pochi metri dopo e mi ritrovai finalmente nella radura. Il viaggio mi aveva stremato e mi accasciai al suolo privo di forze. Non ero solo, tuttavia. La statua, non so come, era giunta lì prima di me, e venne in mio soccorso, sollevandomi e portandomi fino alla doccia. Non disse niente mentre mi aiutava ad entrare e a sedermi, mi diede solo una lieve pacca sulla spalla non ferita. Poi chiusi gli occhi e persi i sensi. Mi risvegliai inspiegabilmente nel mio letto. Avevo indosso il mio solito pigiama e guardando la sveglia elettronica sul comodino, regalo di mia zia, scoprii che era il mattino dopo la notte in cui trovai la doccia. Che fosse stato tutto uno strano sogno? Mi esaminai allo specchio e non vidi la minima traccia delle ferite infertemi dalle bestie nella foresta, né i lividi e i tagli. Sentii qualcosa dentro la tasca del pigiama, tuttavia, qualcosa di piccolo e solido. Ci infilai la mano ed estrassi una piccola, misteriosa ghianda. Decisi che non aveva importanza se fosse stato tutto un sogno o meno. Sperai solo che, se fosse stato effettivamente un sogno, sogni del genere non divenissero un’abitudine, pur essendomi appena svegliato ero incredibilmente esausto. Andai con calma in cucina e mi feci un caffè molto forte,  seguito naturalmente da una sigaretta. Guardando fuori dalla finestra vidi che era l’alba. L’alba di un nuovo, bellissimo giorno. Da allora faccio solo il bagno.
                                                                                                                                  

mercoledì 11 dicembre 2013

La Doccia - capitolo 3






Li riaprì sotto una luce intensissima, tanto intensa da rendermi cieco. Era il Sole. Semplicemente il Sole, sopra un cielo luminosissimo e senza nuvole. Mi rialzai lentamente e coprendomi gli occhi con una mano mi guardai intorno. Stavolta non ero sperduto nel nulla, poco lontano vedevo un piccolo paesino sulla riva del mare. Proveniva un gran casino dal paesino, una banda suonava e si sentivano risate, grida e canti. L’esatto contrario della foresta, pensai. Decisi di andare a dare un’occhiata, se ero lì per un motivo ero ben intenzionato a scoprirlo. Arrivato in paese capii che era in festa, in festa per cosa non l’ho mai scoperto. Era l’apoteosi della vita: ogni abitante, dai ragazzini agli anziani, dalle giovani coppiette alle intere, numerose famiglie del paese erano per le strade a festeggiare, ognuno a modo loro. Sentii anche un forte odore di cannabis. E’ un modo anche quello, dopotutto. Camminai per le vie festanti. Ogni volto era raggiante e sorridente, illuminato da una felicità semplice, sincera. Non vidi avidità, cupidigia o bramosia nello sguardo di nessuno. Erano vestiti in maniera molto semplice eppure dignitosa, erano poveri eppure avevano molto più di me. C’era uno strano calore nell’aria che mi riscaldò l’animo e mi ritrovai a sorridere beota, senza un particolare motivo. Attraversai le strette vie del paese facendomi strada tra la piccola folla del paesino e giunsi al suo limitare, dove dopo poche centinaia di metri si trova il mare. Vidi un piccolo sentiero che sembrava portarvici e decisi di seguirlo, spinto dalla voglia di vedere il mare. Seguendo il piccolo sentiero ciottolato e brullo notai delle piccole barche a remi arenate sulla spiaggia, lì da chissà quanto, consumate dal vento e dal sole. Quando arrivai sulla spiaggia tutti i suoni del paesino sembravano lontanissimi, non ne giungeva che un lontano eco, udibile quasi a stento. Mi sedetti sulla sabbia calda e osservai il luminoso mare, senza un particolare pensiero in mente. Dopo un po’ notai che c’era un piccolo molo in legno che si sporgeva sul mare e una figura lì seduta. La figura dava le spalle alla spiaggia ed era intenta ad osservare il mare, immobile. Era una donna, vestita con abiti semplici e dai lunghi capelli castani, si sarebbe detto quasi di mezz’età. Incuriosito mi ci avvicinai. Le vecchie assi del molo scricchiolarono rumorosamente sotto i miei passi, eppure la donna non mosse neanche un muscolo. In silenzio mi sedetti al suo fianco e la guardai in volto. Il suo volto era segnato dagli anni eppure era una bella donna,il suo volto trasudava una forte malinconia. Non dissi nulla per un po’, mi limitai a guardare nella direzione del suo sguardo cercando di capire cosa guardava con tanta intensità. Poi, dopo aver constatato che nulla appariva all’orizzonte, decisi di parlare. Le chiesi cosa faceva lì, visto che tutti gli altri erano in paese a festeggiare Dio solo sa cosa. La donna non rispose. Riprovai con un’altra domanda, chiedendole cosa stesse guardando. Di nuovo non rispose. Insistetti, domandandole se avesse voglia di venire con me a mostrarmi il paese e a festeggiare insieme a tutti gli altri. La donna non mi sentiva nemmeno. Si limitava a fissare l’orizzonte, come in attesa di qualcosa, o qualcuno. Mi domandai se sentisse la musica, le risate e le grida provenienti dal paese. Probabilmente le sentiva, ma non le ascoltava. Così come non ascoltava me, e, immagino, tante altre persone venute prima di me. Decisi di non insistere ulteriormente, rimasi ancora un po’ in silenzio a guardare l’orizzonte, poi mi alzai lentamente e me ne andai, incamminandomi verso il paese. Mi voltai qualche volta a guardarla ed era sempre lì, immobile. Mi domandai se perfino si fosse resa conto che fossi stato lì. Questo incontro mi aveva reso malinconico, quali eventi l'avevano portata su quel molo? Ebbi la sensazione che in qualche modo dovevo intuire qualcosa da quell'incontro, come se fosse una chiave alla soluzione dello strano enigma in cui mi ero ritrovato. L'unica cosa che mi venne in mente fu che forse il motivo per cui lei era su quel molo fosse più o meno lo stesso che mi portò nella doccia. Non eravamo poi così diversi, a pensarci. Una strana panico nacque dal profondo del mio cuore: qualunque cosa fosse successa, non sarei voluto finire così, a fissare l'orizzonte ammutolito, sordo alla musica della festa. Decisi dunque ti fare ritorno alla festa e divertirmi, senza pensare a niente. Mi mossi a gran passi in direzione del paese e come prima cosa decisi di recarmi ad un'osteria, per farmi un bicchierino. Ne vidi uno in un viottolo parallelo alla strada principale che portava all'uscita del paese e al mare. Entrai e trovai un'atmosfera molto calorosa: uomini di tutte le età erano lì riuniti per brindare a chissà cosa, forse al semplice fatto di essere lì a brindare. Dopotutto che motivo ci deve essere per festeggiare se non la festa stessa? Un uomo sulla sessantina mi scorse e mi invitò a gran voce ad unirmi a loro, ed altri se ne aggiunsero a darmi il benvenuto. Non mi feci certo pregare: chiesi all'oste la stessa cosa che stavano bevendo gli altri e mi unii a loro nei canti, nelle risate e nelle chiacchiere. Erano molto incuriositi da me, a quanto pare non avevano mai visto molti forestieri e mi fecero molte domande. E' sempre interessante il modo in cui una persona molto distante da noi veda la vita. Parlai soprattutto con l'uomo che per primo mi invitò ad unirmi a loro, parlammo molto a lungo di tante cose. Si stupì molto della mia visione nichilistica delle cose, a loro il nichilismo non era mai venuto in mente, diceva. Non aveva mai sperimentato la noia o il vuoto. Certo, aveva anche lui i suoi problemi, ma non si era mai ritrovato in un vortice ciclico di giorni tutti uguali, senza sorprese, senza nemmeno poi tante difficoltà. Capii in quel momento che anche le difficoltà nella vita aiutano ad essere felici, le danno quel gusto in più, che sia la soddisfazione di essere riuscito a riparare il lavandino con le proprie mani oppure di aver imparato a fare qualcosa di veramente complicato. Forse nel mio mondo, per quanto riguarda le cose pratiche, era tutto troppo facile: per poter sopravvivere mi bastava andare a tavola quando era pronto, aprire una bottiglia d'acqua quando avevo sete e dormire quando avevo sonno. Quell'uomo, invece, nonostante si spezzasse la schiena ogni giorno per poter sopravvivere mi sembrava l'uomo più felice di questo mondo. Parlammo ancora a lungo, quando ad un tratto decisi di soddisfare la mia curiosità e gli domandai della donna del molo. Un guizzo di dolore mosse il suo volto come una breve ma forte scarica elettrica, poi divenne serio. Mi raccontò che un giorno, molti anni prima, un ciarlatano le fece una profezia: una mattina di non si sa quando, dal mare sarebbe disceso un angelo che l'avrebbe portata via da quel piccolo, noioso villaggio per portarla sulle stelle. Da allora lei stette lì, aspettando quell'angelo che non arrivò mai. Quella donna era sua figlia. Lo guardai costernato, in silenzio. Socchiusi la bocca come per dire qualcosa, ma il suo sguardo mi fece capire che non c'era niente da fare. Intuì che lei fosse consapevole che non sarebbe mai arrivato nessuno, ma trovò più facile cullarsi nella cieca speranza piuttosto che attraversare lei il mare e andare a cercarlo. Così non dissi più nulla, mi limitai a sorridergli mesto, poi gli strinsi la mano, lo abbracciai e mi diressi fuori, salutando tutti: ero pronto a tornare a casa. Avevo capito il motivo che mi portò lì, dentro quella doccia, isolato dal mondo esterno: stavo sbagliando strada, dovevo assolutamente prenderne un'altra. La strada che avevo intrapreso era come un binario morto di un treno, andava avanti per molto ma non conduceva da nessuna parte. Attraversai di corsa le vie del paese per tornare da dove ero venuto, dall'altra parte rispetto al mare, tuttavia ricordai che c'era una cosa da fare, prima di andare via, così cambiai direzione e mi diressi verso la spiaggia. Lei era ancora lì, esattamente come l'avevo lasciata. Mi avvicinai e mi sedetti nuovamente al suo fianco. La guardai negli occhi, posandole una mano sulla spalla, e dissi una cosa sola: "grazie". Stavolta, incredibilmente, ebbe una reazione, un piccolo sussulto, poi si voltò a guardarmi incredula. Non aggiunsi niente, le sorrisi e me ne andai. Ora che non mi restava più niente da fare in quel piccolo paesino mi diressi senza fare deviazioni al luogo in cui mi ero risvegliato, in modo che chiudendo gli occhi sarei tornato alla doccia. Così non fu.

martedì 10 dicembre 2013

La Doccia - capitolo 2



Dopo che il semplice fatto di essere sotto al getto bollente non fosse più così piacevole e divertente, iniziai a guardarmi intorno e a studiare quello che era da poco  diventato il mio universo: studiai a lungo i numerosi flaconi di shampoo e bagnoschiuma, rimanendo deluso dal fatto che fossero di marche totalmente sconosciute, molti perfino completamenti privi di marche ed etichette. A casa mia tendenzialmente uso lo stesso tipo di bagnoschiuma e lo stesso tipo di shampoo, che con gli anni ho imparato a riconoscere e a preferire nell’immenso universo degli articoli da bagno. Lì non ne trovai nemmeno l’imitazione di sottomarca della quale in situazioni normali non avrei accettato neanche sotto pagamento. Rassegnato, iniziati ad annusare uno per uno i prodotti lì presenti, convinto dentro di me che non essendo di marca dovessero avere un profumo e una qualità tale che nessuna azienda voglia prendersene il merito. Cazzo, se mi sbagliai. Quando afferrai il primo, un denso liquido contenuto in una bottiglietta di plastica, dalla forma totalmente ordinaria, e aprendo il tappo gli diedi una sospettosa e diffidente annusata, immediatamente la mia mente riportò alla mente l’odore in un campo di fragole, del sole cocente su un campo di spighe in un paesino rurale sperduto e dimenticato e dell’affetto sincero e profondo che può provare la madre terra per un albero o un muflone. Nella mia mente vidi una vecchia signora con uno scialle e un bastone, seduta in veranda, a spaziare con lo sguardo su uliveti e campi, accarezzando ogni frutto, albero, spiga e foglia che le ha permesso di vivere abbastanza da avere le rughe. Inebriato da questo profumo, che battezzai tra me e me “amore non diluito”, me ne versai avidamente una generosa porzione sul palmo e me la spalmai su tutto il corpo, dalle orecchie alla faccia allo spazio tra le dita dei piedi. Rimasi avvolto in quell’abbraccio di profumo ed emozioni per quello che mi è sembrato un attimo o un eternità, e sciacquarmi via quel sapone fu come dovermi separare da mia madre. Ancora incredulo, provai stavolta uno degli shampoo, dal colore di smeraldo acceso e qualche tonalità di giallo che non subito identificai. All’olfatto, esso aveva il sentore di una pesca nella morbida e innocente mano di una ragazza, giovane e fresca come un fiumiciattolo di montagna, di un amore fresco e puro confessato solo con gli occhi e di risate spensierate. A questo non volli dargli un nome: se lo avessi fatto avrebbe avuto il nome di lei, che anni or sono amai e che tutto questo me lo fece respirare ogni istante. I miei capelli riconobbero qualcosa di simile a loro nello shampoo, e non ne furono aggrediti come un vetro opaco dal vetril, bensì fu come ritrovare un vecchio amico, e sentii anni di prodotti chimici e cattive compagnie venire accomiatati dai miei capelli. Trascorsi ore in questo modo, a godermi la scoperta di questi due nuovi prodotti i quali, se reclamizzati in una pubblicità, probabilmente sarebbero andati a ruba nel giro di due giorni. Passata ormai la prima euforia, iniziai a domandarmi se non fosse il caso di tornarmene a casa, i primi bagliori rosei in cielo mi fecero dedurre che erano giunte le prime ore del mattino. L’idea di andarmene da lì fu dura da mandare giù, un sasso sarebbe stato meno indigesto, tuttavia ero stato via tutta la notte senza neanche avvisare e forse a casa sarebbero stati preoccupati, perciò contai fino a cento e chiusi l’acqua. Subito il freddo che fino a quel momento avevo perfino dimenticato invase la piccola cabina della doccia, facendomi rabbrividire e tremare come un ossesso. In cerca di calore e sollievo aprii lo sportello e uscii per cercare i miei vestiti, i quali però erano letteralmente dei pezzi di ghiaccio, poiché buttati bagnati nella notte gelata. La macchina era ancora ad un centinaio di metri e non potevo certo percorrerli nudo, sarebbe stata una vergogna incredibile se qualcuno mi avesse visto. Il freddo penetrava sempre di più nel mio corpo e le mani e i piedi erano già diventati bianchi come neve, e altrettanto freddi. L’unica soluzione che potei trovare in quel momento di panico e urgenza fu quella di tornare nella doccia e rimanerci, uscire avrebbe significato come minimo una congestione, forse la morte, anche durante il giorno. Sperando che durante il breve intervallo l’acqua della doccia fosse rimasta calda, aprii lo sportello con la fretta di chi sta perdendo la partita in televisione, entrai nella doccia e di nuovo un getto d’acqua bollente amava il mio corpo. Lo amava senza remore, come ama tutti i corpi, che siano vecchi, brutti o interisti. Ama tutti senza distinzione, a volte è l’unico che accarezza e ama ogni parte del tuo corpo, che conosce come un marito conosce l’affezionato corpo della moglie dopo 20 anni di matrimonio. Saranno state ormai le prime ore gelide del mattino, quando stupidamente si pensa che il mondo si risveglia solo perché siamo noi a farlo, e passata l’ebbrezza della notte la stanchezza iniziava a farsi sentire. Ormai rassegnato all’idea di essere diventato prigioniero in quel caldo abbraccio, cercai una posizione comoda per riposare qualche ora, e la trovai rannicchiandomi sul fondo e appoggiando la testa al sottile muro piastrellato, con  il volto rivolto allo sportello. Lentamente la mia mente cadde in un profondo sonno, cullato dal dolce suono dell’acqua che scorreva impetuosa sul mio corpo. Da allora fu difficile distinguere il sogno dalla vita reale:le visioni provocate dagli articoli da bagno divennero più realistiche e le ore di veglia più confuse e nebbiose. Credevo avrei patito la fame a causa di tutto il tempo passato senza mangiare, ma non ne provai. Pensavo qualcuno avrebbe notato che c'era un tizio che stava facendo la doccia all'aperto, o che semplicemente qualcuno mi avrebbe cercato, ma niente. Eravamo solo io e la doccia. Durante il giorno decisi di iniziare a provare uno shampoo, uno che mi ispirava particolarmente dal colore. Era contenuto in un anonimo contenitore ed era di un bellissimo colore verde scuro. Mi incuriosì molto la forma che si intravedeva all'interno del flacone, ero quasi certo si trattasse di una ghianda. Dopo avere versato una generosa dose di shampoo nella mia mano e essermela applicata sui capelli, capii che quella volta qualcosa era diverso: dopo pochi secondi passati a strofinarmi i capelli con quello strano shampoo iniziai ad avere dei forti capogiri, e svenni poco dopo. Quando riaprii gli occhi fui molto confuso: non avevo la minima idea di quanto tempo fosse passato, e soprattutto di dove fossi: mi trovavo in una piccola radura, e fin dove poteva spingersi il mio sguardo vedevo solo una fitta, misteriosa foresta. Fino a quel momento potevo dire di averne visti parecchi, di boschi: mio padre mi portava spesso a funghi con lui, da bambino, inoltre ne vidi molti altri andando in montagna in estate. Ma nessuno era come quello. In ogni bosco in cui ero stato precedentemente era facile trovare un qualche segno del passaggio dell'uomo, un mozzicone di sigaretta, una strada in lontananza, una cartaccia. Lì non trovai niente di tutto ciò,  era come se quella foresta appartenesse ad un altro tempo, dove l'uomo ancora non esisteva. Il cielo incombeva molto cupo. Non si udiva un suono. Ebbi la netta sensazione di essere l'unico essere vivente nel raggio di chissà quanto. Fino a quel momento la solitudine non mi aveva mai spaventato, anzi, ogni tanto la ricercavo. In quella foresta, tuttavia, provai una grande tristezza all'idea di essere il solo lì presente. Nessun animale, uccello, insetto, niente di niente. Solo io e la foresta. Cosa facevo lì? Stavo sognando? Oppure qualcuno mi ha trovato privo di coscienza e nudo sotto la doccia e mi ha portato, per qualche motivo, in quella foresta? Mi guardai e notai di essere vestito di tutto punto. Questo, tuttavia, non mi aiutava a capire dove finiva la realtà e iniziava il sogno. Che importanza aveva, però? Cosa aveva senso in tutto questo? Decisi di fare un giro intorno per verificare se ero veramente solo, tanto cosa avevo da perdere? Camminai a lungo, ore, forse giorni. Come sotto la doccia la fame, la sete e il sonno non mi attanagliavano. Non ricordavo nemmeno più cosa fossero. Mi sentivo un essere di solo spirito, incorporeo ed effimero, tuttavia non mi ero mai sentito più vivo in vita mia. La foresta era un posto irreale, incredibile: nessun suono, nessuna traccia di vita animale, perfino io non ero esattamente sicuro di trovarmi lì. L'aria era umida e intrisa di odore, l'odore dello shampoo che avevo usato. Non saprei descriverlo bene, ma aveva un qualcosa di vitale, come l’alito della madre terra, un misto di umidità, muschio, erba e terra. Eppure c’era molto altro. Un odore squisito. Dopo tanto vagare giunsi in un'enorme radura nel bosco. Finalmente, dopo tanto tempo, un tempo che mi sembrò interminabile, rividi l'opprimente volta del cielo. Era nuvolo come la prima volta che lo vidi, forse perfino di più. Notai al centro della radura un masso ricoperto di muschio e decisi di appoggiarmici un poco, nonostante non fossi stanco. Più mi ci avvicinavo, più notavo che quel masso era strano: aveva la sagoma d'un uomo. Arrivato a pochi passi constatai che non mi ero sbagliato: aveva proprio l'aspetto d'una statua d'uomo, interamente ricoperta di muschio ed erbe. Poi aprì gli occhi. Rimasi a lungo a fissare quei profondi occhi blu, sembravano aver visto qualunque cosa, dalle profondità del mare ai recessi del cuore e della mente umana, dalla cima delle montagne alle infinite distese di ghiaccio dell'Antartide, dal punto più recondito della foresta amazzonica alla capanna sull’albero di un bimbo riservato e sognatore. Il suo volto aveva un'età indefinibile, nonostante fosse ricoperto di rughe la sua espressione sorniona poteva farlo sembrare un bambino. Provai subito un'istintiva fiducia per lui, mi sentii come un bambino sperduto che viene salvato dal nonno. I suoi occhi ebbero un guizzo e mi fece un rapido occhiolino, poi tornò serio e parlò. Così disse la statua nella radura nella foresta misteriosa: "per quale motivo pensi di essere qui? Quale strada, quale scelta ti ha portato in quella doccia?" Motivo? Scelta? Adesso c'è un motivo preciso per cui io sia qui? Adesso l'ho scelto io di essere qui? Confuso, risposi di non saperlo. La statua rispose: "finché non scoprirai il motivo, non riuscirai mai ad andartene via di qui. Cerca di capire. Non sei finito in questa foresta per caso, devi solo accettare la verità." Detto questo, un sorriso mosse il volto marmoreo della statua, dopodiché chiuse gli occhi e più non parlò. Di colpo fui di nuovo solo. La solitudine era ancora più pesante di quanto non fosse prima dell'incontro con la statua, il silenzio più opprimente. Avrei voluto chiedergli tantissime cose, ma per quanto lo invocassi egli non riaprì i suoi profondi occhi blu. Mi sentivo frustrato e nervoso, oltre che, giusto per cambiare, confuso. Tuttavia qualcosa era cambiato. Ora avevo uno scopo, volevo tornare a casa, rivedere i miei amici, i miei cari, perfino il tabaccaio un po' stronzo vicino a casa venne ricordato, in quel momento, con malinconia. Volevo tornare alla mia vita. Mi distesi sull'erba umida e chiusi gli occhi, non ero stanco ma volli rimanere un poco a riflettere sul da farsi. Riaprii gli occhi ed ero di nuovo nella doccia. Avevo un forte mal di testa ed ero confuso, ma mi sentii vivo come non mai. Non mi stavo semplicemente limitando a sopravvivere, come tendevo a fare fino a poco tempo prima. Intenzionato a non perdere tempo, presi un nuovo flacone, piena di un liquido blu mare, molto luminoso. Ben presto iniziarono i capogiri e ben presto chiusi gli occhi.

lunedì 9 dicembre 2013

La Doccia - capitolo 1


Questo è uno dei primi racconti che abbia mai scritto, è purtroppo rimasto incompiuto per diversi anni e credo che meriti di vedere la luce del web. Mi auguro che vi piaccia, buona doccia a tutti!




Fu in una notte di quegli inverni nebbiosi e bui tipici del nord, uno di quelli in cui il gelo sembra volerti congelare anche la merda che porti dentro, che incontrai per la prima volta la doccia. Ero di ritorno da una festicciola a casa di amici, tipica serata dalle tante promesse dimenticate con l’alcool, e mi stavo dirigendo verso l’auto, parcheggiata a due isolati dal luogo della festa perché in queste sere la gente tende a non uscire, e di conseguenza lascia la macchina esattamente al suo parcheggio sotto casa. La serata era stata totalmente deludente: mesi prima ero stato mollato e contavo in quella serata perché cambiasse qualcosa, qualunque cosa. Tornando alla macchina mi resi conto che non era cambiato niente, la mia vita era esattamente quella insulsa di prima. I soliti amici con i quali, dopotutto, non mi trovavo poi così bene, i soliti discorsi e le solite serate. Nulla era cambiato. Ma tutto stava per cambiare da lì a poco, senza che ne fossi consapevole. Per la via notai quella che a prima vista sembrava una comune cabina telefonica, fatto che nella mia mente annebbiata dall’alcool non ricevette, sulle prime, l’immeritata attenzione che si dedica a cose o fatti fuori dell’ordinario: le cabine telefoniche non esistevano più da anni. Mentre mi ci avvicinavo tuttavia essa solleticò la mia curiosità, come un buon libro in uno scaffale dimenticato, e trovatomi di fronte ad essa realizzai che non era nulla di simile, per utilizzo, ad una cabina telefonica: il folle risultato che mi fulminò la mente fu che quella era, almeno in apparenza, una doccia. Una doccia in tutto e per tutto: non mancava lo sportello della cabina, in vetro opaco per mantenere la privacy del fortunato docciatore, come se quando ci si trova lì sotto qualcuno abbia l’idea, o la possibilità, di trovarcisi davanti; non mancava un pratico doccino, dallo stile moderno e al contempo elegante e raffinato, forse sintomo della ricerca di bellezza ed arte anche negli oggetti più comuni e deleteri; non mancavano neanche tutti gli ingredienti necessari ad una doccia come dio comanda, ossia docciaschiuma, shampoo, creme dall’odore intenso e profumato, ma dal sapore tutt’altro che gradevole, un inganno in piena regola dell’uomo moderno, il tutto corredato da una grande spugna gialla, morbida da una parte e ruvida dall’altra. Uno dei tanti particolari che la differenziava da una cabina telefonica, o da un elefante,  era l’assenza di un pannello sulla parte superiore, atto a chiudere perfettamente la struttura e renderla un blocco unico: come tutte le docce che ho visto in vita mia era aperta sul di sopra, in modo da permettere ad un raggio divino di raggiungerti anche sotto la doccia. Insomma, era una doccia in tutto e per tutto. Pensando che fosse una di quelle strane opere d’arte contemporanee, come quel tizio che ha preso un cesso e l’ha trasformato in arte, mi guardai intorno in cerca di qualche prova a sostegno della mia teoria, qualche targa esplicativa (certo, altrimenti non avrei potuto constatare che si trattava di arte, bensì di una stramaledetta doccia), un nome, un titolo a quella che era già diventata la mia opera artistica preferita. Non ne trovai. Manco l’ombra. Tutto ciò che vidi fu un pacchetto di sigarette vuoto e accartocciato, come se il maleducato fumatore avesse voluto disprezzare il vizio che ogni minuto lo disprezza, una merda di cane che ringraziai il cielo di non aver pestato e un gratta e vinci già grattato e vissuto. L’ipotesi dell’opera d’arte era perciò da escludere. Peccato, sarebbe stata un’opera artistica che avrei davvero amato ed apprezzato, invece era solo una doccia. Seriamente intenzionato a venire a capo di quella che ormai consideravo un’indagine personale, forse a causa del vino o della noia, mi ritrovai ad aprire lo sportello di accesso e provare ad aprire l’acqua, per vedere cosa sarebbe successo. Un potente getto di acqua gelata mi investì il braccio prima che facessi in tempo a ritrarlo, e bagnò il mio cappotto firmato nuovo nuovo. Imprecai. È assurdo in effetti che ormai siamo noi a proteggere ciò che dovrebbe  proteggere noi, ossia i nostri vestiti, le nostre scarpe, i nostri cappelli e i nostri guanti. Spesso ho preferito congelarmi le mani fino a non sentirle più, piuttosto che rischiare di farci cadere la cenere sopra fumando. Pensando ciò mi accesi una sigaretta, giusto per poter fare qualcosa per i prossimi tre minuti, e lasciai scorrere l’acqua. Fumai quella sigaretta non vedendo l’ora di finirla, di poter tornare a vivere e a fare qualcosa, non volevo assaporare quei tre minuti di pausa da tutto concedendoli all’uccidermi lentamente. Finita l’ennesima sigaretta della noia, mi tolsi il giubbotto, posandolo in una panchina lì a fianco, e provai ad immergere il mio braccio scoperto e vulnerabile sotto il getto d’acqua. Stavolta fui molto più rapido a ritrarlo, perché l’acqua era diventata bollente e la cabina della doccia era ormai di proprietà di un denso vapore, che non l’avrebbe ceduta certo con le buone. Passai due minuti interi col dolore padrone della mia mente, a cercare sollievo tra quel poco di neve ghiacciata che ancora resisteva stoica ai lati del marciapiede, accantonata lì come un cane fedele che è piacevole a guardarsi e da avere intorno ma che deve stare al suo posto. Ah, dimenticavo, immagino che questo sia il momento della narrazione in cui tramite un espediente debba rivelarvi il mio nome, che so, facendolo dire da qualcuno che mi chiama oppure rivelandolo io stesso. Sappiate che non lo farò. Nessuno dirà il mio nome in questa storia, le persone non dichiarano il mio nome e cognome quando mi parlano, lo sappiamo già entrambi chi sono. Inoltre questa storia la sto raccontando io, e siccome generalmente non mi chiamo da solo, sapere il mio nome non vi serve a un accidente. La gente è troppo ossessionata da un nome, da una definizione, come se debba saperne il nome per sapere cosa sia il cielo, il mare, il freddo. Freddo che ormai divorava la parte migliore di me e piano piano arrivava alle viscere, alle ossa, alle parti che non vogliamo far sapere che ci sono ma che sono lì, e non sono meno caratteristiche di me di quanto lo siano il colore dei miei occhi o le vene sul dorso delle mie mani. In quel momento la mia mente congelata e annebbiata partorì un’idea che potrei definire folle, insana. Così regolai il calore dell’acqua, rendendola sì molto calda ma sopportabile, uno di quei calori che ti fa sentire protetto, e senza togliermi le scarpe entrai nella doccia e chiusi lo sportello alle mie spalle. Subito le mie mani congelate urlarono di dolore, come neve buttata sulla stufa, non abituate a temperature superiori allo zero, tanto che dovetti abbassare di un poco la temperatura per diventare di nuovo padrone e non sottomesso delle mie mani. Piano piano mi abituai e alzai la temperatura, finché non fu un piacere unico essere lì sotto, piacere che non necessita di una squadra di calcio o di una donna bensì solo di sé stesso. Nel frattempo i miei vestiti completamente zuppi erano diventati pesanti, così complice la piacevole temperatura della cabina mi spogliai completamente e li lanciai fuori dalla cabina, sperando di nuovo di mancare la merda di cane. Qualcosa mi disse che la centrai in pieno. Nonostante fossi completamente nudo all’aperto, in pieno inverno, con una temperatura che accarezzava i primi gradi al di sotto dello zero come un anima gemella ritrovata, in quella doccia stavo benissimo. Finché restavo nello stretto cono di acqua bollente che fuoriusciva dal doccino era come essere in una piacevole e rilassante sauna, o sotto il sole vendicativo di agosto. Il freddo esterno era improvvisamente diventato una realtà lontana e separata, tanto che in quel momento non riuscì nemmeno più a ricordare effettivamente come sia provare freddo. 

Qualcosa su di me


Mi presento: mi chiamo Marco, in arte Macchino, con l'accento sulla a. Sono uno scrittore esordiente, diciamo che ho sempre avuto la passione per la scrittura, ma una forte timidezza mi ha sempre impedito di aprire agli altri questo mio mondo, finora riservato ad una persona molto speciale.Quella stessa persona mi ha spronato oggi ad aprire questo blog e condividere col mondo (seeeee, se lo leggeranno due persone sarà già buona) tutto quello che scrivo e ho scritto. Cos'altro aggiungere? Mi auguro che chi dovesse capitare da queste parti e leggere qualcosa, vuoi per noia, vuoi per caso, possa passare anche solo cinque minuti del suo tempo piacevolmente, dimenticando per un istante tutto ciò che lo circonda ed entrare nella mia bacata testolina. Stay tuned, ma non dimenticate di andare giù a giocare e godervi la vita lontano da uno schermo, che è meglio :D