venerdì 24 gennaio 2014

Il messaggio nella bottiglia - terza parte




Come predetto dal mio conoscente agente di viaggi arrivo in aeroporto a notte fonda. Non riesco a tranquillizzarmi finché Buck non è di nuovo con me, e dopo che il mio buon cane mi ha fatto a lungo le feste ci incamminiamo verso l'uscita. Mi sento parecchio intontito e stanco dopo il lungo volo, il bagaglio mi sembra pesantissimo e ho solo voglia di dormire. Oltrepasso le porte d'uscita dell'aeroporto e finalmente sono fuori, in suolo canadese. Nonostante la stagione l'aria è ancora fresca, sebbene mi trovo nella parte più meridionale del Canada fa comunque molto più freddo rispetto a casa. Respiro a pieni polmoni e come la mattina precedente davanti alla macchina rimango per qualche istante spaesato, domandandomi cosa fare. Buck mi guarda con sguardo interrogativo, come ad aspettare che io prenda una decisione. Mi ci vuole qualche secondo per realizzare finalmente di essere davvero qui, dall'altra parte del mondo, siamo soli io e Buck e dobbiamo cavarcela in qualche modo. Per prima cosa penso sia meglio trovare una sistemazione per la notte, così entriamo in uno dei tanti taxi in attesa di un cliente e in inglese gli chiedo di portarmi in un motel in città. Il tassista è un uomo sulla sessantina, corpulento e baffuto, dai modi piuttosto bruschi e di poche parole. Durante il viaggio non ne dice nemmeno una, mentre guardo fuori dal finestrino un mondo sconosciuto muoversi a gran velocità nella direzione opposta alla mia, come se cercasse di sfuggirmi per non farsi conoscere. Qualcosa, tuttavia, riesco a coglierlo: un paesaggio piuttosto brullo, con poche case sparse e piccoli paesi molto distanti tra loro, colorato da boschi di immense conifere color verde scuro. Tutto mi trasmette un'idea di dignitosa semplicità, come la modesta capanna di un boscaiolo dove tutto ciò che non serve è ignorato. Ogni tanto il corpulento tassista mi sbircia furtivamente dallo specchietto retrovisore, ho l'impressione di non stargli affatto simpatico. Io dal canto mio continuo a osservare il paesaggio fuori dal finestrino, ho ben altro a cui pensare che ad un sospettoso tassista canadese. Il sonno annebbia la mia mente e rende pesanti le mie palpebre, tuttavia non riesco a prendere sonno, l'adrenalina di aver davvero intrapreso questa folle avventura mi tiene sveglio, inoltre non è certo il caso di dormire: se il tassista non si fida di me io mi fido ancor meno, non voglio certo brutte sorprese. Così rimango tutto il viaggio in una sorta di limbo, gli occhi socchiusi a guardare fuori dal finestrino senza però osservare davvero. Buck sembra più tranquillo e dorme della grossa, dev'essere veramente esausto. Riposa, vecchio mio, domani una grande avventura ci aspetta. Dopo quello che mi è sembrato parecchio tempo arriviamo in un piccolo paese sulla costa del grande, immenso oceano, e il tassista ferma l'auto davanti a quello che sembra un ostello. Si volta e mi fissa senza dire una parola per qualche secondo, infine, per rendere chiaro il concetto, mormora: "siamo arrivati. Sono 30 dollari, per favore". Mi sembra di aver fatto la figura dello sciocco, così pago in fretta e scendo dal taxi, prendo Buck e la grossa valigia dal bagagliaio ed entro nell'edificio in legno e mattoni, dall'aria piuttosto malconcia. Nella piccola e polverosa hall un signore piuttosto anziano dorme in una grande poltrona dietro il bancone, alla fredda luce di un televisore che trasmette un vecchio film western. Mi sento in colpa a doverlo svegliare, ma non ho altra scelta, così lo chiamo più volte, prima sottovoce, poi un po' più forte. Si direbbe sordo come una campana, perché continua a dormire profondamente senza fare una smorfia. Esasperato mi vedo costretto a dover suonare la campanella sul bancone, non avrei voluto farlo ma non sembra volersi svegliare con le buone. Finalmente  si sveglia di colpo sgranando gli occhi, temo di averlo spaventato. Anche lui ha dei folti baffi bianchi molto simili al protagonista del film alla televisione, e mi scruta stringendo gli occhi. Sembra vederci anche poco. "Cosa vuoi?", mi domanda in un inglese brusco e biascicato. "Avrei bisogno di una camera per la notte", rispondo io un po' intimidito dai suoi modi poco cortesi. Appena ho pronunciato queste parole il suo sguardo affilato si rilassa e un grosso sorriso sornione compare al suo posto, sembrerebbe molto contento. "Una stanza? Ma certamente! Le darò la più bella che abbiamo, la 312, pensi che l'abbiamo disinfestata da poco!". Le parole "disinfestata da poco" non sono molto rassicuranti e non voglio nemmeno sapere da che razza di bestiacce l'hanno disinfestata, ma non è il momento di fare il difficile, così gli lascio i miei dati e mi faccio accompagnare alla stanza. "Vedo che lei viene da un paese molto lontano, cosa la porta da queste parti? mi domanda guidandomi fino alla stanza. "Motivi di lavoro", rispondo piuttosto concisamente, "l'azienda dove lavoro è molto interessata all'acquisto di un'isoletta al largo di queste coste per farne un villaggio turistico. Così mi hanno mandato per trattare con l'attuale proprietario e fare un sopralluogo. Conto di andarci già domattina". L'uomo, che fino a quel momento camminava lentamente pochi passi davanti a me, si ferma di colpo e si volta a guardarmi, incredulo e sospettoso. "Ma come?", mugugna come una zampogna, gli occhi grigi spalancati nella penombra del vecchio corridoio, "non l'hanno avvertita? C'è un forte tifone che imperversa in questi giorni, al largo della costa, e la navigazione è sospesa!". Non riesco a crederci, la mia solita sfortuna! Cercando di rimanere indifferente, sebbene un forte tifone turbina anche dentro di me, gli domando: "per quanto sarà sospesa la navigazione? "Chi può dirlo, amico mio? Potrebbe durare giorni come settimane. Non prima di cinque o sei giorni comunque, le autorità sono sempre molto caute quando si tratta di tifoni, abbiamo pianto molte persone negli ultimi anni a causa loro". Maledizione, questa non ci voleva proprio, sono partito in fretta e furia e adesso sono costretto ad aspettare. "Pazienza", mormoro esagerando indifferenza, "vorrà dire che, nel frattempo, farò il turista". Finalmente arriviamo alla stanza, lui mi lascia le chiavi e torna nella hall, immagino a sonnecchiare. Ne ho un gran bisogno anche io, così entro, mi faccio una doccia e, dopo aver messo a terra una vecchia coperta per Buck, finalmente mi corico. Succede anche stanotte, come altre tanti notti: nel momento in cui sto per addormentarmi per qualche motivo non lo faccio, spalanco gli occhi nel buio e il cuore mi rimbomba forte nel petto. Nel frattempo risuona nella stanza un flebile ma inconfondibile rumore di zampette, tante zampette che corrono per la stanza, unito a quello di Buck che ringhia sommessamente. Così mi arrendo e decido di fare una passeggiata con Buck, mi vesto velocemente ed esco. I miei passi mi conducono senza esitazione all'oceano, come se sapessero alla perfezione la strada. Il vecchio aveva ragione: l'oceano è decisamente agitato. Cavalloni alti diversi metri si infrangono con fragore sulla riva ghiaiosa, potenti e maestosi come una schiera di cavalieri alla carica. Sopra di me un incredibile cielo illuminato da miriadi di stelle, coperte in lontananza da nere nubi temporalesche. Questo oceano è l'unica cosa che mi separa dal mio obiettivo, il tesoro promesso nel messaggio. Non ho mai creduto nel destino, ma una parte di me sembra capire in questo momento che non è un caso che l'oceano mi costringa ad aspettare, che c'è qualcosa che devo fare prima di poter salpare. Qualunque cosa sia, ho intenzione di scoprirlo. Sebbene io continui ad avanzare velocemente, quasi di corsa, non riesco a scorgere oltre i miei passi, come se mi trovassi dinnanzi ad un mare di nebbia. Per il momento preferisco non pensarci, così mi sdraio qualche minuto sulla spiaggia, osservo l'infinità dell'universo che mi sovrasta e, per la prima volta nella mia vita, dimentico me stesso e la mia insignificante esistenza, sentendomi parte del tutto. Poi torno al motel, dove finalmente mi addormento, stanco e sereno, ignorando il suono delle zampette che continuano imperterrite a correre freneticamente.

giovedì 16 gennaio 2014

Il messaggio nella bottiglia - seconda parte




Mi sveglio tardi stamane, ho dormito decisamente bene ieri notte, come mai prima d'ora. Spesso mi capitava di avere degli incubi, ne avevo uno ricorrente in cui ero a lavoro, o più raramente a casa, e le pareti della stanza iniziavano lentamente a restringersi, fino a schiacciarmi completamente. A quel punto mi svegliavo sudato e spaventato, non capendo perché nella mia tranquillità avevo incubi così frequenti. Realizzo in questo momento che i sogni ricorrenti non sono da prendere sottogamba, credo sia il modo in cui il nostro inconscio ci rivela ciò che con tutte le nostre forze cerchiamo di ignorare. Prima o poi viene a galla, dal profondo del nostro inconscio, ed esplode nella nostra mente con forza e prepotenza, finché non possiamo più ignorarlo. Oggi posso finalmente guardare in faccia la realtà ed accettare quello che il mio cuore ha cercato di dirmi per tutti questi anni: la mia vita è una gabbia, e la cosa più assurda è che le chiavi per chiuderla le ho sempre avute io. E' tempo di uscire, finalmente fuori. Mi preparo un caffè ascoltando una canzone allegra alla radio, credo si tratti di "La", di Old Man River. Mi ha sempre messo di buon umore, chissà perché non mi è mai venuto in mente di ascoltarla di prima mattina, per darmi la carica giusta per affrontare una giornata di lavoro. A volte basta poco per salvarsi, anche solo una canzone. Non è per quello che è nata la musica, e in generale l'arte? Il caffè di stamattina mi nausea, ne ho sempre bevuto tanto, forse troppo, e stamattina mi causa una forte repulsione. Dopo qualche piccolo sorso decido di buttarlo nel lavandino, non ho più intenzione di scendere a compromessi, se qualcosa non mi piace non voglio averci a che fare. Il sole entra con maleducazione dalla finestra della cucina, un sole radioso di inizio primavera, che sembra promettere un futuro migliore. E' facile rinascere a primavera. Mi faccio una doccia veloce ed esco, senza sapere precisamente dove andare. Rimango qualche secondo imbambolato davanti alla macchina, domandandomi "e adesso?", poi torno in me e parto, dirigendomi verso il centro. Ho intenzione di farmi una lunga passeggiata, così parcheggio la macchina vicino al mio vecchio liceo e inizio a camminare. Passando davanti alla mia vecchia scuola dopo tanti anni una miriade di immagini, colori e suoni iniziano a riaffiorare nella mia mente, prima lentamente, poi così velocemente da darmi quasi i capogiri. Dov'erano nascosti questi ricordi tutti questi anni? Ricordo tante piccole cose perfettamente, immagini e momenti fotografati nella mia mente con precisione assoluta: l'intervallo con i miei amici, fuori a fumare nel grande e trascurato giardino della scuola, all'ombra di castagni altissimi che dovevano essere lì da secoli. Le prime cotte, le gite, l'arrivo dell'estate e la crescente tensione che preannunciava la fine dell'anno. Non ho mai atteso con tanta trepidazione l'arrivo dell'estate come quando ero a scuola, né le estati sono mai state così colorate, luminose e spensierate come in quegli anni. Continuo a camminare, passando davanti al bar dove andavamo io e un mio amico durante le ore di religione, che non frequentavamo. Senza rendermene conto arrivo davanti all'edificio in cui lavoro, un bell'edificio dopotutto, molto moderno e luminoso, pieno di uffici. Mi blocco davanti alla lunga scalinata che porta all'ingresso, costeggiata da cespugli e aiole di fiori. Una brezza tiepida soffia dolcemente, come accarezzandomi per darmi coraggio. Potrei ancora recuperare, dopotutto: uno dei ragazzini mi farebbe un grosso cazziatone, cercando di farsi sentire da tutti ma senza dare a vedere che lo faccia apposta, poi a testa bassa tornerei alla mia postazione e riprenderei a lavorare, e a vivere come sempre. Potrei, ma allo stesso tempo non posso. Non sono più in grado di scendere a compromessi, non dopo tutti quegli incubi, non dopo aver trovato la bottiglia. Così mormoro timidamente "andate a quel paese" tra me e me e attraverso la strada, verso una meta ben diversa. Dall'altra parte della strada c'è il posto che forse mi ha fatto continuare la mia squallida vita per tutti questi anni, facendomi sognare e sperare: l'agenzia di viaggi di un mio vecchio conoscente. Ogni giorno, durante la pausa pranzo o dopo il lavoro, mi fermavo a guardare la vetrina, osservando le offerte di viaggi e sognando mille avventure diverse. Ogni dannato giorno ho cercato nel mio cuore il coraggio di entrare e partire per un lungo viaggio, mandando al diavolo tutto. Ogni giorno rimanevo fuori, accontentandomi di poter sognare. Ai miei colleghi non era certo sfuggita questa mia abitudine e non mancavano di prendermi in giro ad ogni occasione, dapprima in maniera sottile e velata, col tempo sempre più spavaldamente e crudelmente. Ogni giorno, ma non oggi. Oggi entro. Lui è un mio vecchio compagno di scuola, più giovane di me di due anni, con il quale non avevo mai parlato. Non mi stupisco perciò quando non mi riconosce, e si comporta come con un normale estraneo. "Cosa posso fare per lei?" mi domanda sorridendo, gentile e al contempo perfettamente sicuro di sé, il rossore del suo viso nascosto dall'abbronzatura della sua pelle, probabile souvenir di qualche viaggio esotico. "Vorrei prenotare un volo per l'aeroporto Internazionale di Halifax Stanfield, in Canada. Il prima possibile." In tutta risposta si limita a premere dei tasti sul suo pc, ho l'impressione che li stia premendo totalmente a caso, come quando nei film si entra nel database del Pentagono semplicemente premendo il più velocemente possibile tasti a caso sulla tastiera. "Guardi, voli diretti non esistono, però con un semplice scambio può arrivarci senza problemi. Va bene se le faccio fare scalo a Londra?". "Va benissimo. Quando potrei partire?" rispondo subito, malcelando il mio entusiasmo. "Anche stasera volendo, c'è un volo alle 22, con scambio a Londra alle 23.30 e arrivo all'una di notte." Deve cogliere il mio sguardo stupito, perché aggiunge subito, con un sorrisetto ironico, "ora locale, ovviamente". Rimango qualche secondo a sentirmi un perfetto imbecille, poi guardo l'orologio: è mezzogiorno e un quarto, se voglio prendere quell'aereo devo correre, e tanto. Senza pensarci gli dico che va bene quello, e dopo avergli dettato le mie generalità per il biglietto rimane un secondo pensieroso, come a cercare di ricordarsi dove ha già sentito il mio nome. Poi ci rinuncia, mi consegna il biglietto e mi saluta stringendomi la mano. Senza che me ne accorga mi ritrovo fuori, con il biglietto aereo in mano e un aereo da prendere. Bene, il passaporto ce l'ho, lo rinnovo ormai da vent'anni con la speranza che mi possa servire, devo giusto prelevare tutti i miei risparmi, correre a casa a fare i bagagli e correre all'aeroporto. Vi siete mai accorti di quanto il tempo passa velocemente quando si è di fretta? E' come stringere la sabbia nel pugno della mano: più si stringe e più la sabbia fuoriesce. Così ora, senza rendermene conto, mi ritrovo sull'aereo, dopo una corsa contro il tempo. Ora che mi posso finalmente rilassare la paura, che fino ad ora mi aspettava in qualche angolo buio, viene fuori. Realizzo di aver commesso una follia: per prima cosa quella bottiglia avrà viaggiato per anni prima che io la trovassi. Chiunque abbia scritto quel messaggio è quasi impossibile che si trovi ancora lì, e nel caso lo sia, non troverò altro che un cadavere. Inoltre sono davvero partito allo sbaraglio, ho solo una vaga idea di dove devo andare, e non mi sono preparato per niente ad un lungo viaggio. Arriverò in aeroporto a notte fonda, dove passerò la notte? Ancora una volta finisco per sentirmi uno stupido, non ho fatto altro che passare da un estremo all'altro. Forse, un giorno, troverò la mia via di mezzo. Guardando malinconicamente fuori dal finestrino penso a tutto ciò da cui sto scappando. Una persona più forte di me sarebbe rimasta esattamente dov'era, lottando e soffrendo ogni giorno per la sua felicità, anziché scappare. Qualunque cosa accada voglio che questa sia la prima e l'ultima volta che scappo dai miei problemi, anche se non dovessi trovare il tesoro la mia speranza è di ritornare migliore, quello sarebbe il tesoro più prezioso. Il rombo potente del motore dell'aereo mi scuote dai miei pensieri, facendomi capire che tutto questo è solo l'inizio.

giovedì 9 gennaio 2014

Il messaggio nella bottiglia - Prima parte



Non sono mai stato un temerario, una di quelle persone che solleva la vita per le caviglie, la scuote e vede cosa ne viene giù. Le opportunità di cambiamento, le cosiddette buone occasioni, mi hanno sempre spaventato: per cercare un piccolo miglioramento si rischia di perdere tutto ciò che si ha. Tutto ciò che ho sempre cercato è una tranquilla, sicura stabilità: un lavoro normale, una casa normale e una vita normale, senza né alti né bassi, ma lineare. Per molti può sembrare monotona, o noiosa, ma nella mia piccola monotonia sono al sicuro, e niente potrebbe mai stravolgerla. Forse. Sono due giorni che guardo fisso la bottiglia trovata in spiaggia mentre portavo fuori il cane, come ogni giorno alle 6 e mezza in punto. Non è tanto la bottiglia a suscitare in me tanto interesse, e al contempo un forte timore riverenziale, purtroppo se ne trovano tante abbandonate sulle nostre belle spiagge. Ciò che mi interessa è il suo contenuto. Poiché al suo interno ho trovato un messaggio, come nei film. Un messaggio molto conciso, e in molte parti illeggibile, ma quel poco che ho letto è bastato a far crollare tutta la stabilità del mio mondo, il lavoro, la casa, tutto. Il messaggio, per quel che si può leggere, recita: "naufragato in un'isola sperduta e disabitata, alle coordinate  33°54′59″N 78°7′50″W. Trovato immenso tesoro sepolto in un pozzo, lo darò in ricompensa a chiunque mi porti via da qui." Firma e data sono illeggibili, come tante altre parti del messaggio. Ma quelle che ci sono bastano. Bastano a scuotermi, a scioccarmi, a farmi pensare e dubitare, seduto sulla mia poltrona a rimirare la bottiglia. Se la storia del tesoro è vera, quella ricchezza eliminerebbe gran parte della mia stabilità, o monotonia: non avrei più bisogno di lavorare, probabilmente comprerei una casa più grande, e magari qualcuno che badi al mio cane e lo porti fuori. La mia vita sociale e sentimentale potrebbero avere anche loro una scossa, non sarei più così solo, ma uscirei a divertirmi tutte le sere, e condividerei la mia fortuna con gli altri. Ho quarant'anni ormai e alla mia età non è più così facile cambiare, specialmente per me. Quando ero ragazzino vivevo nella convinzione che nulla della mia vita di quel periodo era destinato a durare: la scuola, gli amici, le lezioni di karate, di cui ero febbrilmente appassionato, presto o tardi avrebbero preso commiato dalla mia vita. E difatti fu così: la scuola finalmente finì, e mi resi conto solo diversi anni dopo di quanto non fosse poi così male. Gli amici si sposarono, dapprima un po' precocemente, a causa di gravidanze inaspettate e indesiderate,  poi con giusta cadenza, fino a che l'ultimo incallito scapolone si rassegnò a tirar su famiglia. Iniziarono a frequentarsi esclusivamente tra di loro, tra coppie sposate e magari con figli, e senza che me ne accorgessi mi ritrovai solo. Forse era giusto così. Perfino il karate, la mia grande passione, col tempo uscì dalla mia vita. Col lavoro, gli impegni, la stanchezza che ormai la sera faceva sì che passavo le serate a guardare programmi televisivi che annebbiavano il mio pensiero razionale, lentamente ma inesorabilmente iniziai a frequentare le lezioni sempre con minor frequenza, nonostante le esortazioni del mio maestro a non lasciarmi andare. Lasciarmi andare a cosa, poi? Non c'è mai stato niente che andasse effettivamente male, nella mia vita, semplicemente si era spento qualcosa in me, qualcosa che non si è più riacceso. A questi pensieri inizio a sudare freddo, e uno strano panico sgorga dal mio cuore come nera pece: è davvero così che voglio vivere? Senza né alti né bassi, né sorprese, né dolori ma neanche gioie? La bottiglia può essere la mia sola via di fuga da tutto questo, la mia buona occasione, e temo ormai l'ultima. Quante ne ho ignorate finora? Dopotutto cosa ho da perdere? Il mio squallido lavoro al call center, dove un ragazzino che potrebbe essere mio figlio mi sta col fiato sul collo per farmi vendere, e sorridere, ed essere convincente raggirando uno sconosciuto? Certo, non guadagno nemmeno male, uno stipendio che mi permettere di vivere in maniera dignitosa. Sempre che possa essere dignitoso subire una simile vessazione psicologica da dei ragazzini per quattro soldi. Loro sembrano sempre contenti del loro lavoro. Io, ora che ci penso, no. Alla mia casa non sono affezionato, è del tutto impersonale e non ho vissuto niente di significativo dentro le sue mura, giusto qualche sporadico flirt effimero come vapore.  Improvvisamente ho la precisa sensazione che non ci sia niente di importante nella mia vita, nessuno per cui valga la pena di restare, niente da cui non riuscirei a separarmi a cuor leggero. Credo che quando una persona realizza ciò non può rimanere indifferente. Vado in bagno senza un preciso motivo, e mi fisso a lungo allo specchio. Posso sembrare ancora un ragazzo, dopotutto, può darsi che una vita tranquilla e senza eccessi sia complice del mio aspetto ancora ingenuo. Credo sia arrivato il tempo di diventare un vero uomo e prendere in mano la mia vita. Così torno in salotto, smanioso di agire, senza tuttavia sapere cosa fare. Il mio sguardo ricade sulla bottiglia, e per qualche secondo mi ritrovo a fissarla con odio. Maledetta, dannatissima bottiglia! Fino a due giorni fa ero così tranquillo e beato nella mia monotonia, ed ora ogni mia certezza è venuta meno. Dalla bottiglia il mio sguardo passa al mio cane, Buck, che mi fissa accucciato nel suo morbido giaciglio. Ha una strana espressione, se così si può dire, dipinta sul muso: è come se avesse compreso quello che sto passando e stia cercando di dirmi che lui vuole restare al mio fianco, come sempre da più di sei anni ormai. Mi si strugge il cuore di fronte alla sua espressione di muto e disperato dolore. Buck è un labrador di sei anni e mezzo, sta con me da quando aveva poco più di due mesi. E' una storia banale in realtà, come si può dire in generale della mia vita: i cani di una coppia di amici avevano da poco avuto una cucciolata e loro non potevano badare a tutte quelle benedette creaturine, così una di loro, Buck, l'avevano affidata a me. Sulle prime ero piuttosto restio ad occuparmi di qualcuno che avrebbe avuto bisogno di tante attenzioni, o forse facevo solo finta. Quando me l'avevano messo tra le braccia ho capito che in realtà sarebbe stato lui ad occuparsi di me, a farmi sentire meno solo, a farmi tirare avanti in qualche modo. Da quel giorno vive a casa mia, rendendo la mia vita quantomeno sopportabile. Mi avvicino a lui e lo accarezzo forte, mormorando: "certo che vieni con me, stupidone!" Sembra tranquillizzarsi, e dopo qualche carezza si allontana tranquillo, andando in cucina senza un particolare motivo apparente. Sono ormai le 11 passate, e domani, essendo lunedì, dovrei andare al lavoro. Dovrei. La parola "dovrei" frulla nella mia mente come appunti gettati in una centrifuga: ci sono mille cose che potrei fare domani, e andare a lavoro diventa lentamente l'opzione più improbabile. Che so, potrei cambiare i mobili di casa, i mobili che ho mi sembrano improvvisamente grigi e tristi. Potrei dipingere, tele di mille colori, e non solo tele: pareti, oggetti, perfino l'automobile dipingerei, cancellando quarant'anni di grigiore. Potrei anche scrivere un libro, senza un particolare argomento o una trama, ma scrivendo quello che mi passa per la testa. Oppure potrei partire per andare a salvare il tizio della bottiglia, e ottenere un immenso tesoro. Ecco, questa mi suona bene. Entusiasta stappo uno spumante che riservavo per le occasioni speciali e ne bevo una lunga sorsata, ridendo come un idiota. Ero un idiota fino ad un minuto fa, che non ridevo mai, e non ero nemmeno capace di godermi la vita. L'alcool mi dà subito alla testa, non sono mai stato un gran bevitore e basta poco per rendermi alticcio. Ma va bene così. Molte grandi decisioni sono state prese così, ubriachi e folli. In preda all'entusiasmo corro al mio computer all'ultimo grido, costatomi un occhio della testa, per capire dove si trova l'isola in base alle coordinate. Immettendo le coordinate nel motore di ricerca indica una piccola isola al largo del Canada, sarà grande poco più di due o tre chilometri. Sono un po' deluso, mi aspettavo un'isola Caraibica dalla lussureggiante vegetazione, piena di fascino e mistero, invece non sembra essere 'sto granché. Pazienza, dopotutto quello che conta è il tesoro, dell'isola poco importa. Continuo a bere, l'entusiasmo cresce ma la testa inizia a ciondolare. Buck mi guarda con scetticismo dalla sua cuccia, come un genitore osserva il figlio mentre sta per commettere una bambinata. Il Canada non è certo dietro l'angolo, dovrò dare fondo a tutti i miei risparmi, e forse non basteranno. Magari posso vendere il computer, non ne ho certo bisogno, dopotutto. Chiunque tu sia, amico mio, aspettami: sto venendo a salvarti.