Come predetto dal mio conoscente agente di viaggi arrivo in
aeroporto a notte fonda. Non riesco a tranquillizzarmi finché Buck non è di
nuovo con me, e dopo che il mio buon cane mi ha fatto a lungo le feste ci
incamminiamo verso l'uscita. Mi sento parecchio intontito e stanco dopo il
lungo volo, il bagaglio mi sembra pesantissimo e ho solo voglia di dormire.
Oltrepasso le porte d'uscita dell'aeroporto e finalmente sono fuori, in suolo
canadese. Nonostante la stagione l'aria è ancora fresca, sebbene mi trovo nella
parte più meridionale del Canada fa comunque molto più freddo rispetto a casa.
Respiro a pieni polmoni e come la mattina precedente davanti alla macchina
rimango per qualche istante spaesato, domandandomi cosa fare. Buck mi guarda
con sguardo interrogativo, come ad aspettare che io prenda una decisione. Mi ci
vuole qualche secondo per realizzare finalmente di essere davvero qui,
dall'altra parte del mondo, siamo soli io e Buck e dobbiamo cavarcela in
qualche modo. Per prima cosa penso sia meglio trovare una sistemazione per la
notte, così entriamo in uno dei tanti taxi in attesa di un cliente e in inglese
gli chiedo di portarmi in un motel in città. Il tassista è un uomo sulla
sessantina, corpulento e baffuto, dai modi piuttosto bruschi e di poche parole.
Durante il viaggio non ne dice nemmeno una, mentre guardo fuori dal finestrino
un mondo sconosciuto muoversi a gran velocità nella direzione opposta alla mia,
come se cercasse di sfuggirmi per non farsi conoscere. Qualcosa, tuttavia,
riesco a coglierlo: un paesaggio piuttosto brullo, con poche case sparse e
piccoli paesi molto distanti tra loro, colorato da boschi di immense conifere
color verde scuro. Tutto mi trasmette un'idea di dignitosa semplicità, come la
modesta capanna di un boscaiolo dove tutto ciò che non serve è ignorato. Ogni
tanto il corpulento tassista mi sbircia furtivamente dallo specchietto
retrovisore, ho l'impressione di non stargli affatto simpatico. Io dal canto
mio continuo a osservare il paesaggio fuori dal finestrino, ho ben altro a cui
pensare che ad un sospettoso tassista canadese. Il sonno annebbia la mia mente
e rende pesanti le mie palpebre, tuttavia non riesco a prendere sonno,
l'adrenalina di aver davvero intrapreso questa folle avventura mi tiene
sveglio, inoltre non è certo il caso di dormire: se il tassista non si fida di
me io mi fido ancor meno, non voglio certo brutte sorprese. Così rimango tutto
il viaggio in una sorta di limbo, gli occhi socchiusi a guardare fuori dal
finestrino senza però osservare davvero. Buck sembra più tranquillo e dorme
della grossa, dev'essere veramente esausto. Riposa, vecchio mio, domani una
grande avventura ci aspetta. Dopo quello che mi è sembrato parecchio tempo
arriviamo in un piccolo paese sulla costa del grande, immenso oceano, e il
tassista ferma l'auto davanti a quello che sembra un ostello. Si volta e mi
fissa senza dire una parola per qualche secondo, infine, per rendere chiaro il
concetto, mormora: "siamo arrivati. Sono 30 dollari, per favore". Mi
sembra di aver fatto la figura dello sciocco, così pago in fretta e scendo dal
taxi, prendo Buck e la grossa valigia dal bagagliaio ed entro nell'edificio in
legno e mattoni, dall'aria piuttosto malconcia. Nella piccola e polverosa hall
un signore piuttosto anziano dorme in una grande poltrona dietro il bancone,
alla fredda luce di un televisore che trasmette un vecchio film western. Mi
sento in colpa a doverlo svegliare, ma non ho altra scelta, così lo chiamo più
volte, prima sottovoce, poi un po' più forte. Si direbbe sordo come una
campana, perché continua a dormire profondamente senza fare una smorfia.
Esasperato mi vedo costretto a dover suonare la campanella sul bancone, non
avrei voluto farlo ma non sembra volersi svegliare con le buone.
Finalmente si sveglia di colpo sgranando
gli occhi, temo di averlo spaventato. Anche lui ha dei folti baffi bianchi
molto simili al protagonista del film alla televisione, e mi scruta stringendo
gli occhi. Sembra vederci anche poco. "Cosa vuoi?", mi domanda in un
inglese brusco e biascicato. "Avrei bisogno di una camera per la
notte", rispondo io un po' intimidito dai suoi modi poco cortesi. Appena
ho pronunciato queste parole il suo sguardo affilato si rilassa e un grosso sorriso
sornione compare al suo posto, sembrerebbe molto contento. "Una stanza? Ma
certamente! Le darò la più bella che abbiamo, la 312, pensi che l'abbiamo
disinfestata da poco!". Le parole "disinfestata da poco" non
sono molto rassicuranti e non voglio nemmeno sapere da che razza di bestiacce
l'hanno disinfestata, ma non è il momento di fare il difficile, così gli lascio
i miei dati e mi faccio accompagnare alla stanza. "Vedo che lei viene da
un paese molto lontano, cosa la porta da queste parti? mi domanda guidandomi
fino alla stanza. "Motivi di lavoro", rispondo piuttosto
concisamente, "l'azienda dove lavoro è molto interessata all'acquisto di
un'isoletta al largo di queste coste per farne un villaggio turistico. Così mi
hanno mandato per trattare con l'attuale proprietario e fare un sopralluogo.
Conto di andarci già domattina". L'uomo, che fino a quel momento camminava
lentamente pochi passi davanti a me, si ferma di colpo e si volta a guardarmi,
incredulo e sospettoso. "Ma come?", mugugna come una zampogna, gli
occhi grigi spalancati nella penombra del vecchio corridoio, "non l'hanno
avvertita? C'è un forte tifone che imperversa in questi giorni, al largo della
costa, e la navigazione è sospesa!". Non riesco a crederci, la mia solita
sfortuna! Cercando di rimanere indifferente, sebbene un forte tifone turbina
anche dentro di me, gli domando: "per quanto sarà sospesa la navigazione?
"Chi può dirlo, amico mio? Potrebbe durare giorni come settimane. Non
prima di cinque o sei giorni comunque, le autorità sono sempre molto caute quando
si tratta di tifoni, abbiamo pianto molte persone negli ultimi anni a causa
loro". Maledizione, questa non ci voleva proprio, sono partito in fretta e
furia e adesso sono costretto ad aspettare. "Pazienza", mormoro
esagerando indifferenza, "vorrà dire che, nel frattempo, farò il
turista". Finalmente arriviamo alla stanza, lui mi lascia le chiavi e
torna nella hall, immagino a sonnecchiare. Ne ho un gran bisogno anche io, così
entro, mi faccio una doccia e, dopo aver messo a terra una vecchia coperta per
Buck, finalmente mi corico. Succede anche stanotte, come altre tanti notti: nel
momento in cui sto per addormentarmi per qualche motivo non lo faccio, spalanco
gli occhi nel buio e il cuore mi rimbomba forte nel petto. Nel frattempo
risuona nella stanza un flebile ma inconfondibile rumore di zampette, tante
zampette che corrono per la stanza, unito a quello di Buck che ringhia
sommessamente. Così mi arrendo e decido di fare una passeggiata con Buck, mi
vesto velocemente ed esco. I miei passi mi conducono senza esitazione all'oceano,
come se sapessero alla perfezione la strada. Il vecchio aveva ragione: l'oceano
è decisamente agitato. Cavalloni alti diversi metri si infrangono con fragore
sulla riva ghiaiosa, potenti e maestosi come una schiera di cavalieri alla
carica. Sopra di me un incredibile cielo illuminato da miriadi di stelle,
coperte in lontananza da nere nubi temporalesche. Questo oceano è l'unica cosa
che mi separa dal mio obiettivo, il tesoro promesso nel messaggio. Non ho mai
creduto nel destino, ma una parte di me sembra capire in questo momento che non
è un caso che l'oceano mi costringa ad aspettare, che c'è qualcosa che devo
fare prima di poter salpare. Qualunque cosa sia, ho intenzione di scoprirlo.
Sebbene io continui ad avanzare velocemente, quasi di corsa, non riesco a
scorgere oltre i miei passi, come se mi trovassi dinnanzi ad un mare di nebbia.
Per il momento preferisco non pensarci, così mi sdraio qualche minuto sulla
spiaggia, osservo l'infinità dell'universo che mi sovrasta e, per la prima
volta nella mia vita, dimentico me stesso e la mia insignificante esistenza, sentendomi
parte del tutto. Poi torno al motel, dove finalmente mi addormento, stanco e
sereno, ignorando il suono delle zampette che continuano imperterrite a correre
freneticamente.
venerdì 24 gennaio 2014
giovedì 16 gennaio 2014
Il messaggio nella bottiglia - seconda parte
Mi sveglio tardi stamane, ho dormito decisamente bene ieri
notte, come mai prima d'ora. Spesso mi capitava di avere degli incubi, ne avevo
uno ricorrente in cui ero a lavoro, o più raramente a casa, e le pareti della
stanza iniziavano lentamente a restringersi, fino a schiacciarmi completamente.
A quel punto mi svegliavo sudato e spaventato, non capendo perché nella mia
tranquillità avevo incubi così frequenti. Realizzo in questo momento che i
sogni ricorrenti non sono da prendere sottogamba, credo sia il modo in cui il
nostro inconscio ci rivela ciò che con tutte le nostre forze cerchiamo di
ignorare. Prima o poi viene a galla, dal profondo del nostro inconscio, ed
esplode nella nostra mente con forza e prepotenza, finché non possiamo più
ignorarlo. Oggi posso finalmente guardare in faccia la realtà ed accettare
quello che il mio cuore ha cercato di dirmi per tutti questi anni: la mia vita
è una gabbia, e la cosa più assurda è che le chiavi per chiuderla le ho sempre
avute io. E' tempo di uscire, finalmente fuori. Mi preparo un caffè ascoltando
una canzone allegra alla radio, credo si tratti di "La", di Old Man
River. Mi ha sempre messo di buon umore, chissà perché non mi è mai venuto in
mente di ascoltarla di prima mattina, per darmi la carica giusta per affrontare
una giornata di lavoro. A volte basta poco per salvarsi, anche solo una
canzone. Non è per quello che è nata la musica, e in generale l'arte? Il caffè
di stamattina mi nausea, ne ho sempre bevuto tanto, forse troppo, e stamattina
mi causa una forte repulsione. Dopo qualche piccolo sorso decido di
buttarlo nel lavandino, non ho più intenzione di scendere a compromessi, se
qualcosa non mi piace non voglio averci a che fare. Il sole entra con
maleducazione dalla finestra della cucina, un sole radioso di inizio primavera,
che sembra promettere un futuro migliore. E' facile rinascere a primavera. Mi
faccio una doccia veloce ed esco, senza sapere precisamente dove andare.
Rimango qualche secondo imbambolato davanti alla macchina, domandandomi "e
adesso?", poi torno in me e parto, dirigendomi verso il centro. Ho
intenzione di farmi una lunga passeggiata, così parcheggio la macchina vicino
al mio vecchio liceo e inizio a camminare. Passando davanti alla mia vecchia
scuola dopo tanti anni una miriade di immagini, colori e suoni iniziano a
riaffiorare nella mia mente, prima lentamente, poi così velocemente da darmi
quasi i capogiri. Dov'erano nascosti questi ricordi tutti questi anni? Ricordo
tante piccole cose perfettamente, immagini e momenti fotografati nella mia
mente con precisione assoluta: l'intervallo con i miei amici, fuori a fumare
nel grande e trascurato giardino della scuola, all'ombra di castagni altissimi
che dovevano essere lì da secoli. Le prime cotte, le gite, l'arrivo dell'estate
e la crescente tensione che preannunciava la fine dell'anno. Non ho mai atteso
con tanta trepidazione l'arrivo dell'estate come quando ero a scuola, né le
estati sono mai state così colorate, luminose e spensierate come in quegli
anni. Continuo a camminare, passando davanti al bar dove andavamo io e un mio
amico durante le ore di religione, che non frequentavamo. Senza rendermene
conto arrivo davanti all'edificio in cui lavoro, un bell'edificio dopotutto, molto
moderno e luminoso, pieno di uffici. Mi blocco davanti alla lunga scalinata che
porta all'ingresso, costeggiata da cespugli e aiole di fiori. Una brezza
tiepida soffia dolcemente, come accarezzandomi per darmi coraggio. Potrei
ancora recuperare, dopotutto: uno dei ragazzini mi farebbe un grosso cazziatone,
cercando di farsi sentire da tutti ma senza dare a vedere che lo faccia
apposta, poi a testa bassa tornerei alla mia postazione e riprenderei a
lavorare, e a vivere come sempre. Potrei, ma allo stesso tempo non posso. Non
sono più in grado di scendere a compromessi, non dopo tutti quegli incubi, non
dopo aver trovato la bottiglia. Così mormoro timidamente "andate a quel
paese" tra me e me e attraverso la strada, verso una meta ben diversa. Dall'altra
parte della strada c'è il posto che forse mi ha fatto continuare la mia
squallida vita per tutti questi anni, facendomi sognare e sperare: l'agenzia di
viaggi di un mio vecchio conoscente. Ogni giorno, durante la pausa pranzo o
dopo il lavoro, mi fermavo a guardare la vetrina, osservando le offerte di
viaggi e sognando mille avventure diverse. Ogni dannato giorno ho cercato nel
mio cuore il coraggio di entrare e partire per un lungo viaggio, mandando al
diavolo tutto. Ogni giorno rimanevo fuori, accontentandomi di poter sognare. Ai
miei colleghi non era certo sfuggita questa mia abitudine e non mancavano di
prendermi in giro ad ogni occasione, dapprima in maniera sottile e velata, col
tempo sempre più spavaldamente e crudelmente. Ogni giorno, ma non oggi. Oggi
entro. Lui è un mio vecchio compagno di scuola, più giovane di me di due anni,
con il quale non avevo mai parlato. Non mi stupisco perciò quando non mi
riconosce, e si comporta come con un normale estraneo. "Cosa posso fare
per lei?" mi domanda sorridendo, gentile e al contempo perfettamente
sicuro di sé, il rossore del suo viso nascosto dall'abbronzatura della sua
pelle, probabile souvenir di qualche viaggio esotico. "Vorrei prenotare un
volo per l'aeroporto Internazionale di Halifax Stanfield, in Canada. Il prima
possibile." In tutta risposta si limita a premere dei tasti sul suo pc, ho
l'impressione che li stia premendo totalmente a caso, come quando nei film si
entra nel database del Pentagono semplicemente premendo il più velocemente
possibile tasti a caso sulla tastiera. "Guardi, voli diretti non esistono,
però con un semplice scambio può arrivarci senza problemi. Va bene se le faccio
fare scalo a Londra?". "Va benissimo. Quando potrei partire?"
rispondo subito, malcelando il mio entusiasmo. "Anche stasera volendo,
c'è un volo alle 22, con scambio a Londra alle 23.30 e arrivo all'una di
notte." Deve cogliere il mio sguardo stupito, perché aggiunge subito, con
un sorrisetto ironico, "ora locale, ovviamente". Rimango qualche
secondo a sentirmi un perfetto imbecille, poi guardo l'orologio: è mezzogiorno
e un quarto, se voglio prendere quell'aereo devo correre, e tanto. Senza
pensarci gli dico che va bene quello, e dopo avergli dettato le mie generalità
per il biglietto rimane un secondo pensieroso, come a cercare di ricordarsi
dove ha già sentito il mio nome. Poi ci rinuncia, mi consegna il biglietto e mi
saluta stringendomi la mano. Senza che me ne accorga mi ritrovo fuori, con il
biglietto aereo in mano e un aereo da prendere. Bene, il passaporto ce l'ho, lo
rinnovo ormai da vent'anni con la speranza che mi possa servire, devo giusto
prelevare tutti i miei risparmi, correre a casa a fare i bagagli e correre all'aeroporto.
Vi siete mai accorti di quanto il tempo passa velocemente quando si è di fretta?
E' come stringere la sabbia nel pugno della mano: più si stringe e più la
sabbia fuoriesce. Così ora, senza rendermene conto, mi ritrovo sull'aereo, dopo
una corsa contro il tempo. Ora che mi posso finalmente rilassare la paura, che
fino ad ora mi aspettava in qualche angolo buio, viene fuori. Realizzo di aver
commesso una follia: per prima cosa quella bottiglia avrà viaggiato per anni
prima che io la trovassi. Chiunque abbia scritto quel messaggio è quasi
impossibile che si trovi ancora lì, e nel caso lo sia, non troverò altro che un
cadavere. Inoltre sono davvero partito allo sbaraglio, ho solo una vaga idea di
dove devo andare, e non mi sono preparato per niente ad un lungo viaggio.
Arriverò in aeroporto a notte fonda, dove passerò la notte? Ancora una volta
finisco per sentirmi uno stupido, non ho fatto altro che passare da un estremo
all'altro. Forse, un giorno, troverò la mia via di mezzo. Guardando malinconicamente fuori dal finestrino penso a tutto ciò da cui sto scappando. Una persona più forte di me sarebbe rimasta esattamente dov'era, lottando e soffrendo ogni giorno per la sua felicità, anziché scappare. Qualunque cosa accada voglio che questa sia la prima e l'ultima volta che scappo dai miei problemi, anche se non dovessi trovare il tesoro la mia speranza è di ritornare migliore, quello sarebbe il tesoro più prezioso. Il rombo potente del
motore dell'aereo mi scuote dai miei pensieri, facendomi capire che tutto
questo è solo l'inizio.
giovedì 9 gennaio 2014
Il messaggio nella bottiglia - Prima parte
Non sono mai stato un temerario, una di quelle persone che
solleva la vita per le caviglie, la scuote e vede cosa ne viene giù. Le
opportunità di cambiamento, le cosiddette buone occasioni, mi hanno sempre
spaventato: per cercare un piccolo miglioramento si rischia di perdere tutto
ciò che si ha. Tutto ciò che ho
sempre cercato è una tranquilla, sicura stabilità: un lavoro normale, una casa
normale e una vita normale, senza né alti né bassi, ma lineare. Per molti può
sembrare monotona, o noiosa, ma nella mia piccola monotonia sono al sicuro, e
niente potrebbe mai stravolgerla. Forse. Sono due giorni che guardo fisso la
bottiglia trovata in spiaggia mentre portavo fuori il cane, come ogni giorno
alle 6 e mezza in punto. Non è tanto la bottiglia a suscitare in me tanto
interesse, e al contempo un forte timore riverenziale, purtroppo se ne trovano
tante abbandonate sulle nostre belle spiagge. Ciò che mi interessa è il suo
contenuto. Poiché al suo interno ho trovato un messaggio, come nei film. Un
messaggio molto conciso, e in molte parti illeggibile, ma quel poco che ho
letto è bastato a far crollare tutta la stabilità del mio mondo, il lavoro, la
casa, tutto. Il messaggio, per quel che si può leggere, recita: "naufragato
in un'isola sperduta e disabitata, alle coordinate 33°54′59″N 78°7′50″W.
Trovato immenso tesoro sepolto in un pozzo, lo darò in ricompensa a chiunque mi
porti via da qui." Firma e data sono illeggibili, come tante altre parti
del messaggio. Ma quelle che ci sono bastano. Bastano a scuotermi, a
scioccarmi, a farmi pensare e dubitare, seduto sulla mia poltrona a rimirare la
bottiglia. Se la storia del tesoro è vera, quella ricchezza eliminerebbe gran
parte della mia stabilità, o monotonia: non avrei più bisogno di lavorare,
probabilmente comprerei una casa più grande, e magari qualcuno che badi al mio
cane e lo porti fuori. La mia vita sociale e sentimentale potrebbero avere
anche loro una scossa, non sarei più così solo, ma uscirei a divertirmi tutte
le sere, e condividerei la mia fortuna con gli altri. Ho quarant'anni ormai e
alla mia età non è più così facile cambiare, specialmente per me. Quando ero
ragazzino vivevo nella convinzione che nulla della mia vita di quel periodo era destinato a durare: la scuola, gli amici, le lezioni di karate, di cui ero
febbrilmente appassionato, presto o tardi avrebbero preso commiato dalla mia
vita. E difatti fu così: la scuola finalmente finì, e mi resi conto solo
diversi anni dopo di quanto non fosse poi così male. Gli amici si sposarono,
dapprima un po' precocemente, a causa di gravidanze inaspettate e
indesiderate, poi con giusta cadenza,
fino a che l'ultimo incallito scapolone si rassegnò a tirar su famiglia.
Iniziarono a frequentarsi esclusivamente tra di loro, tra coppie sposate e
magari con figli, e senza che me ne accorgessi mi ritrovai solo. Forse era
giusto così. Perfino il karate, la mia grande passione, col tempo uscì dalla
mia vita. Col lavoro, gli impegni, la stanchezza che ormai la sera faceva sì
che passavo le serate a guardare programmi televisivi che annebbiavano il mio
pensiero razionale, lentamente ma inesorabilmente iniziai a frequentare le
lezioni sempre con minor frequenza, nonostante le esortazioni del mio maestro a
non lasciarmi andare. Lasciarmi andare a cosa, poi? Non c'è mai stato niente
che andasse effettivamente male, nella mia vita, semplicemente si era spento
qualcosa in me, qualcosa che non si è più riacceso. A questi pensieri inizio a
sudare freddo, e uno strano panico sgorga dal mio cuore come nera pece: è
davvero così che voglio vivere? Senza né alti né bassi, né sorprese, né dolori
ma neanche gioie? La bottiglia può essere la mia sola via di fuga da tutto
questo, la mia buona occasione, e temo ormai l'ultima. Quante ne ho ignorate
finora? Dopotutto cosa ho da perdere? Il mio squallido lavoro al call center,
dove un ragazzino che potrebbe essere mio figlio mi sta col fiato sul collo per
farmi vendere, e sorridere, ed essere convincente raggirando uno sconosciuto?
Certo, non guadagno nemmeno male, uno stipendio che mi permettere di vivere in
maniera dignitosa. Sempre che possa essere dignitoso subire una simile
vessazione psicologica da dei ragazzini per quattro soldi. Loro sembrano sempre
contenti del loro lavoro. Io, ora che ci penso, no. Alla mia casa non sono
affezionato, è del tutto impersonale e non ho vissuto niente di significativo
dentro le sue mura, giusto qualche sporadico flirt effimero come vapore. Improvvisamente ho la precisa sensazione che
non ci sia niente di importante nella mia vita, nessuno per cui valga la pena
di restare, niente da cui non riuscirei a separarmi a cuor leggero. Credo che
quando una persona realizza ciò non può rimanere indifferente. Vado in bagno
senza un preciso motivo, e mi fisso a lungo allo specchio. Posso sembrare
ancora un ragazzo, dopotutto, può darsi che una vita tranquilla e senza eccessi sia
complice del mio aspetto ancora ingenuo. Credo sia arrivato il tempo di
diventare un vero uomo e prendere in mano la mia vita. Così torno in salotto,
smanioso di agire, senza tuttavia sapere cosa fare. Il mio sguardo ricade sulla
bottiglia, e per qualche secondo mi ritrovo a fissarla con odio. Maledetta,
dannatissima bottiglia! Fino a due giorni fa ero così tranquillo e beato nella
mia monotonia, ed ora ogni mia certezza è venuta meno. Dalla bottiglia il mio
sguardo passa al mio cane, Buck, che mi fissa accucciato nel suo morbido
giaciglio. Ha una strana espressione, se così si può dire, dipinta sul muso: è
come se avesse compreso quello che sto passando e stia cercando di dirmi che
lui vuole restare al mio fianco, come sempre da più di sei anni ormai. Mi si
strugge il cuore di fronte alla sua espressione di muto e disperato dolore.
Buck è un labrador di sei anni e mezzo, sta con me da quando aveva poco più di
due mesi. E' una storia banale in realtà, come si può dire in generale della
mia vita: i cani di una coppia di amici avevano da poco avuto una cucciolata e
loro non potevano badare a tutte quelle benedette creaturine, così una di loro,
Buck, l'avevano affidata a me. Sulle prime ero piuttosto restio ad occuparmi di
qualcuno che avrebbe avuto bisogno di tante attenzioni, o forse facevo solo
finta. Quando me l'avevano messo tra le braccia ho capito che in realtà sarebbe
stato lui ad occuparsi di me, a farmi sentire meno solo, a farmi tirare avanti
in qualche modo. Da quel giorno vive a casa mia, rendendo la mia vita
quantomeno sopportabile. Mi avvicino a lui e lo accarezzo forte, mormorando:
"certo che vieni con me, stupidone!" Sembra tranquillizzarsi, e dopo
qualche carezza si allontana tranquillo, andando in cucina senza un particolare
motivo apparente. Sono ormai le 11 passate, e domani, essendo lunedì, dovrei
andare al lavoro. Dovrei. La parola "dovrei" frulla nella mia mente
come appunti gettati in una centrifuga: ci sono mille cose che potrei fare
domani, e andare a lavoro diventa lentamente l'opzione più improbabile. Che so,
potrei cambiare i mobili di casa, i mobili che ho mi sembrano improvvisamente
grigi e tristi. Potrei dipingere, tele di mille colori, e non solo tele:
pareti, oggetti, perfino l'automobile dipingerei, cancellando quarant'anni di
grigiore. Potrei anche scrivere un libro, senza un particolare argomento o una
trama, ma scrivendo quello che mi passa per la testa. Oppure potrei partire per
andare a salvare il tizio della bottiglia, e ottenere un immenso tesoro. Ecco,
questa mi suona bene. Entusiasta stappo uno spumante che riservavo per le
occasioni speciali e ne bevo una lunga sorsata, ridendo come un idiota. Ero un
idiota fino ad un minuto fa, che non ridevo mai, e non ero nemmeno capace di
godermi la vita. L'alcool mi dà subito alla testa, non sono mai stato un gran
bevitore e basta poco per rendermi alticcio. Ma va bene così. Molte grandi
decisioni sono state prese così, ubriachi e folli. In preda all'entusiasmo
corro al mio computer all'ultimo grido, costatomi un occhio della testa, per
capire dove si trova l'isola in base alle coordinate. Immettendo le coordinate
nel motore di ricerca indica una piccola isola al largo del Canada, sarà grande
poco più di due o tre chilometri. Sono un po' deluso, mi aspettavo un'isola
Caraibica dalla lussureggiante vegetazione, piena di fascino e mistero, invece
non sembra essere 'sto granché. Pazienza, dopotutto quello che conta è il
tesoro, dell'isola poco importa. Continuo a bere, l'entusiasmo cresce ma la
testa inizia a ciondolare. Buck mi guarda con scetticismo dalla sua cuccia,
come un genitore osserva il figlio mentre sta per commettere una bambinata. Il
Canada non è certo dietro l'angolo, dovrò dare fondo a tutti i miei risparmi, e
forse non basteranno. Magari posso vendere il computer, non ne ho certo
bisogno, dopotutto. Chiunque tu sia, amico mio, aspettami: sto venendo a
salvarti.
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