giovedì 19 dicembre 2013

Il vecchio e il treno



Non sono esattamente di buon umore, questa mattina, tuttavia aver trovato un posto a sedere vicino al finestrino riesce a migliorarlo, almeno un po'. Mi guardo intorno circospetto, avrei voglia di fiondarmi sull'unico posto libero come una belva a digiuno da settimane, ma la cortesia fa il signore, e voglio verificare che non ci sia qualcuno che ne abbia bisogno più di me. Vedo solo giovani manager, sempre al cellulare, o qualche universitario intento a leggere e ascoltare la musica nelle sue grandi cuffie, per cui mi siedo spensierato. Mi domando il motivo della mia fortuna, possibile che nessun'altro avesse notato, prima di me, il sedile libero? Dei rumori sommessi provenienti dalla mia sinistra mi fanno intuire che l'avevano notato eccome, ma l'avevano evitato come un fastidioso piazzista. Nel sedile a fianco del mio un uomo piuttosto avanti d'età, sui settant'anni, singhiozza sommesso, le mani a coprire il volto e i gomiti appoggiati sulle ginocchia, chiuso come un riccio. Il mio umore cade in un attimo sotto la suola delle mie scarpe. Mi guardo intorno e le persone sedute vicino a noi fanno finta di niente, ascoltano la musica nelle cuffie ad un volume molto alto o fingono di dormire, per difendersi dal suono dei singhiozzi. Senza che me ne accorgessi l'uomo ha smesso di singhiozzare e mi guarda di sottecchi. Il suo sguardo folle mi fa trasalire, e mi rendo conto che ormai non posso più fare finta di niente, sa che l'ho visto. Continua a fissarmi, con i suoi occhi grigi arrossati dal pianto, e non riesco a distogliere lo sguardo. Per un attimo ho l'impressione che sia sul punto di gettarsi su di me come una furia e ogni fibra del mio corpo vibra di tensione. Poi all'improvviso si rilassa, e con lui il suo sguardo, che si abbandona a guardare il vuoto di fronte a noi. A mia volta mi rilasso anche io, e mi metto a guardare fuori dal finestrino: verdi campi e paesini sfrecciano velocemente, forse anche loro devono correre al lavoro, come tutti noi. All'improvviso l'uomo borbotta qualcosa, troppo piano e troppo confusamente perché io possa capirlo, ma sono sicuro che si sia rivolto a me, e una sottile tensione torna a pervadere il mio corpo, mi sono rilassato troppo in fretta. "Come ha detto, scusi?" domando io, cercando di mantenere il più possibile un tono di voce rilassato e pacato, per non agitarlo ulteriormente. "E' stato il treno a farmi piangere, sai figliolo?" scandisce meglio lui, e per un attimo vado nel pallone. Cosa diavolo vorrà dire? E cosa vuole che gli dica? Devo cercare di rispondere nella maniera più consona, senza dargli troppa corda però. In che razza di situazione mi dovevo ficcare di prima mattina! "In che modo l'avrebbe fatta piangere, amico mio?"rispondo infine, cercando di imprimere nel tono della mia voce comprensione e amicizia. L'uomo mi guarda, incerto e un po' perplesso. Forse si immaginava che l'avrei ignorato, come chissà quanti altri prima di me, e ora è titubante se raccontare o meno la sua storia. Ma ormai non può certo tirarsi indietro, come non posso farlo io. E' come se fossimo entrambi sullo stesso treno, ingovernabile e senza freni, lanciati a folle velocità verso chissà dove. Rassicurato dalla mia risposta positiva, l'uomo sembra finalmente rilassarsi e lasciarsi andare, e inizia a parlarmi sottovoce, come un bambino che rivela l'ubicazione del suo fortino segreto. "Probabilmente mi prenderai per pazzo, o ancora più probabilmente l'hai già fatto" inizia l'uomo con un'espressione sorniona, "ma da giovane prendevo spesso il treno, quasi ogni giorno, come immagino faccia tu. Ai miei tempi era diverso rispetto ad oggi, nonostante fossimo in pieno boom economico ancora molti non possedevano un'auto, così la maggior parte delle persone si muoveva in treno. Io non ero certo diverso, ed ero pendolare come molti allora e come molti altri oggi. Ho fatto il pendolare per vent'anni, sempre sulla stessa tratta e sempre per lo stesso lavoro, ero venditore di aspirapolvere porta a porta." L'uomo rimane un attimo in silenzio e inspira malinconico, mentre io lo guardo e mi domando dove vorrà andare a parare. "Era un gran bel lavoro, sai? A quei tempi quasi nessuno possedeva un aspirapolvere, per cui era facile venderli, e poi non c'era tutta la diffidenza che c'è oggi verso gli estranei: venivo sempre invitato ad entrare e mi offrivano sempre qualcosa, in vent'anni mi hanno offerto veramente di tutto. Pensa che una volta una signora svedese mi offrì del salmone affumicato! Alle 10 del mattino!" Le sue parole mi fanno riflettere e sentire un po' in colpa: ha colto nel vivo dicendo che ai tempi non c'era tutta la diffidenza che esiste oggi. Un po' mortificato, lo incito ad andare avanti, mostrandomi interessato e in attesa che prosegua il suo racconto. "Pazzesco!", commento, "il salmone affumicato al mattino? E lei cosa ha fatto? Lo ha mangiato?". L'uomo mi guarda per qualche secondo, serio, e per un attimo ho paura di aver detto qualcosa che non avrei dovuto dire. "Certo che l'ho mangiato!", esclama poi lui, "hai mai provato a dire di no ad una signora svedese?". Non riesco a capire se sia una battuta o meno, o se mi sta prendendo in giro, o se sia solo un pazzo che parla a vanvera e io sia ancora più pazzo a dargli retta. Nel dubbio ridacchio, me la ridacchio di gusto. "Certo", dichiaro ridacchiando ancora come uno sciocco, "non si può proprio dire di no ad una signora svedese, magari anche bella in carne, e con due mani che le usano per piallare i mobili Ikea". "Come ti permetti?", esclama lui con un tono di voce più forte e aggressivo, "mia moglie è svedese, di Ludvika, per la precisione!" E' come prendersi uno schiaffo in faccia. La sua reazione improvvisamente aggressiva mi fa sussultare e velocizza il mio battito cardiaco, la mia tranquillità di poco fa sparisce completamente. "Guarda che ti prendo in giro, giovane!", dice ridacchiando l'uomo, "mia moglie è di Stoccolma!". "Andiamo bene", penso tra me è me, "quest'uomo è davvero matto come un cavallo!". Un forte senso di disagio prende possesso di me, sono molto tentato di alzarmi e cambiare carrozza, perfino di scendere dal treno, se necessario. Ma so che non è possibile: come mi ero reso conto poco fa, ormai ero invischiato in questa storia, senza possibilità di tirarmene fuori senza contrariarlo. A volte detesto la mia incapacità di contrariare gli altri, anche quando mi mettono a disagio, non ne sono proprio capace. Non è la prima volta che il pazzoide di turno, vedendo che gli do' corda e ascolto, inizia a parlarmi ininterrottamente. Discorsi sconclusionati, senza né capo né coda, ai quali non riesco a porre una fine. L'uomo sembra essersi reso conto che qualcosa non andava, perché dopo poco aggiunge: "scusami, mi dispiace se ti sei offeso, non volevo prenderti in giro. Non ti preoccupare, adesso ti lascio in pace e non ti disturberò più, non darmi peso." Le parole di scuse sincere dell'uomo mi addolcirono, a volte basta davvero poco per addolcire una persona, poche parole col cuore in mano. "Ma no, si figuri", mormoro io, "vada avanti, la prego, mi ha incuriosito tantissimo". L'uomo sorride, sembra contento. "Va bene, allora vado avanti", dice senza smettere di sorridere. "Come ti stavo dicendo", prosegue poi, "ho fatto il pendolare per vent'anni, quando ero giovane. Sai, col tempo, prendendo così spesso lo stesso treno, cominciai a prenderci confidenza. Un bel giorno scoprii che, per chi ha orecchie per ascoltare, il treno ha tante di quelle storie da raccontare che non basterebbe una vita per sentirle tutte." Dopo aver pronunciate quelle parole, che unite insieme non riesco a capire, mi fissa serio, a scrutare sul mio volto il riflesso di ciò che accade nel profondo della mia mente. Come sarebbe a dire che il treno ha delle storie da raccontare? I treni, da quel che ne so, non sono che delle macchine, e le macchine non hanno mai raccontato un bel niente. Se fossimo in un fumetto sulla mia testa ci sarebbe un punto interrogativo grande quanto uno spartitraffico, e questo non sfugge alla sua attenzione, anche senza punto interrogativo. Giusto per far capire ancora meglio la mia confusione, gli domando: "in che senso il treno ha delle storie da raccontare?". L'uomo sgranò gli occhi, come stupito dalla mia domanda. "Ma è ovvio, ragazzo mio!", dice l'uomo con il tipico tono di voce di chi sta spiegando qualcosa ad un bambino, "il treno mi parlava! Hai idea di quante persone salgono su di un treno? Di quante amano, di quante sognano, di quante soffrono su un treno, su quel treno?". Il treno gli parlava? Ecco, se prima potevo avere qualche dubbio ora ne sono certo: è davvero matto. Ma sembra un brav'uomo, e dopotutto, sotto sotto, io non credo nell'esistenza dei matti. Solo perché non posso capire il suo punto di vista non vuol dire che sia matto. Per cui continuo: "certo, su un treno salgono centinaia di persone ogni giorno, e chissà quante, forse milioni, ogni anno, e ognuna di loro ha una storia. Mi piace pensare che di tutti gli estranei che vedo ogni giorno sul treno molti, moltissimi sono innamorati. Molti sono anche quelli che hanno dei bambini, per i quali fanno tanti sacrifici. E molti sono quelli che hanno delle storie che a vederli così, un po' imbambolati sui loro comodi sedili, non mi immagino nemmeno. Quindi, se ho ben capito, il treno le raccontava queste storie". L'uomo mi guarda entusiasta, sembra contento della mia domanda, del fatto che forse, finalmente, inizio a capire cosa sta cercando di dirmi. Capisco come possa sentirsi, a volte è capitato anche a me. Sono tendenzialmente una persona timida per ciò che considero personale, così quando cerco di confidare qualcosa a qualcuno faccio dei discorsi molto lunghi, come a giustificarmi. Mi capita che se la persona alla quale mi sto confidando non capisce dove voglia andare a parare mi scoraggio, e finisco per inventarmi qualcosa sul momento per non dire ciò che effettivamente volevo dire. Mi capita anche, come sta succedendo all'uomo seduto al mio fianco, di sentirmi entusiasta e felice se invece quella persona segue il mio discorso, e magari finisce per concludere egli stesso ciò che voglio dirgli, senza bisogno che glielo riveli. Facilita molto le cose, e mi fa capire che quella persona mi capisce davvero, mi rende felice pensare che ho fatto proprio bene a confidarmi. Così l'uomo, incoraggiato, sembra sbottonarsi completamente, e risponde: "Proprio così, ragazzo mio. Per molti anni il treno mi ha raccontato le storie più incredibili, storie che non trovi nei libri bestseller né nei migliori film, storie che probabilmente nessuno a parte me, se non i diretti interessati, conoscerà mai. Una persona molto speciale mi disse, una volta, che è nella realtà che si celano le storie più affascinanti, incredibili e straordinarie. Basta solo aver orecchio per sentirle, come hai fatto tu stamattina." Questo complimento inaspettato mi fa molto piacere, e mi fa sentire speciale. "Così, ogni mattina, mi chiudevo nel bagno del treno, e lui mi raccontava storie di ogni genere", prosegue subito, senza darmi il tempo di compiacermi troppo per il complimento ricevuto, "non prima, certo, di aver mostrato il mio biglietto al controllore. Col tempo le persone che prendevano il mio stesso treno iniziavano a ricordarsi di me. Mi ricordavano come quello con la dissenteria, che sta chiuso quasi tutto il viaggio in bagno. Altri pensavano che mi drogassi, oppure che fossi una sorta di spia, lì chiuso in bagno a borbottare. Viste da fuori le nostre azioni possono trovare mille interpretazioni diverse, e mi divertiva scoprire che spiegazioni si davano del fatto che ero sempre chiuso in bagno." L'empatia è davvero strana. A volte basta che una persona mostri il suo lato più intimo e fragile per trovare la totale comprensione. Credo che sia quello che sta accadendo a me in questo preciso istante. Salito su questo treno, nemmeno mezz'ora fa, ero di pessimo umore, e fortemente infastidito da questo tizio che di prima mattina si prende la briga di piangere, non abbastanza silenzioso perché non potessi sentirlo. Ora tutto ciò che mi sta raccontando lo sento come fossi stato io, molti anni fa, a viverlo in prima persona, e mi sembra così sensato e ovvio che, se qualcuno dicesse il contrario, sarebbe come dire che il cielo è verde. A volte è rosso, o nero, o grigio. Verde mai. Senza che io dica niente, lui prosegue la sua storia: "un giorno gli diedi anche un nome, sai? Quando glielo chiesi mi disse una sorta di codice numerico con cui era stato registrato. Gran brutto nome, e difficilissimo da ricordare. Così gli chiesi se potessi chiamarlo Carlo, e a lui piacque molto, così da quel giorno lo chiamai così. Per vent'anni ogni mattino mi chiudevo nel bagno e Carlo mi raccontava una storia, sembrava non finirle mai, difatti in vent'anni non mi raccontò mai la stessa storia, neanche due storie simili. Quelli sono stati i vent'anni più felici della mia vita, il mio lavoro andava benone e io e mia moglie ci amavano ogni giorno di più. Tuttavia la mia felicità stava per finire.". Completamente rapito dal suo racconto, sono ansioso di scoprire cosa sia successo. "Come mai stava per finire? Cos'è successo?", domando delicatamente. Lui mi guarda triste, una lacrima sembra indecisa che cadere o meno, poi emette un forte sospiro e mormora: "mia moglie, dopo vent'anni di matrimonio, venne a mancare. Un cancro incurabile, dissero i medici. Per me fu una cosa così grande che non avrei saputo definirla, cancro lo ritengo riduttivo.". L'uomo si guarda triste le mani, in silenzio. Le mani che l'hanno stretta, abbracciata e accarezzata chissà quante volte. Mi sento molto triste anche io, e sinceramente non so cosa dire. Credo che in questi casi la cosa più rispettosa da fare sia rimanere in silenzio, qualunque cosa possa dire sarebbe la solita frase fatta, indelicata e sfruttata al punto da divenire vuota, senza significato. Dopo essere rimasto qualche secondo il silenzio, l'uomo riprende il suo racconto, come a risparmiarmi il compito di dover dire qualcosa di appropriato. "Quell'anno fu molto duro, e io andai molto poco nel bagno a parlare con Carlo, non riuscivo a pensare a niente. Quando il primo dolore, quello dell'impatto, passò per lasciar posto ad una profonda, malinconica tristezza, ripresi lentamente a dialogare con lui, e ad ascoltare le sue storie. Tuttavia, diversamente da prima, stavolta era più lui ad ascoltare ciò che avevo da dire, e mi permetteva di sfogare il mio dolore. Il quel terribile periodo la persona che mi stette più vicino fu un treno, pazzesco a dirsi, no?" "No, non direi proprio", gli rispondo io, sorridendogli mesto. "Già, già" aggiunge lui, sorridendo triste a sua volta. A questo punto devo dedurre che, per qualche motivo che ancora non mi ha rivelato, smise di ascoltare le storie del treno. Incuriosito, ma cercando di usare il massimo tatto dato il delicato argomento, gli domando cosa fosse successo dopo. "Sai, mio giovane amico, un giorno volli chiedere a Carlo di raccontarmi una storia in particolare: la sua. Lui mi disse allora che non aveva una storia interessante, era solo un treno che faceva la stessa tratta da vent'anni, non sapeva niente del resto del mondo e d'altronde non l'avrebbe mai visto. Dopo la morte di mia moglie per me era diventato doloroso vivere a casa mia, e nella mia città. Troppi bei ricordi. Non credo tu possa capire, ragazzo mio, e mi auguro tu non debba mai farlo, ma era insopportabile vivere nella casa dove fino poco tempo prima ero stato felice con lei. Così come mi era diventato insopportabile passeggiare nella città senza di lei, tutto mi parlava di lei. Certo, avevo sempre la mia famiglia, e i miei amici. Ma lei era il fulcro attorno il quale girava la mia esistenza, le solide fondamenta su cui era costruita la mia intera vita. Senza di lei il castello di carte della mia vita crollò silenziosamente, e persi interesse verso tutto ciò che mi circondava. Così presi una decisione." "Che cosa decise?", gli domando. "Beh, detto così può sembrare stupido", risponde lui, "ma decisi che da quel giorno avrei girato il mondo, per poi poterlo raccontare a Carlo. Così il giorno stesso presentai le dimissioni, ritirai tutti i soldi che avevo da parte e partii. Andai in lungo e in largo per il mondo, senza una meta precisa, ascoltando mille storie nuove e interessanti, attraversando montagne, fiumi, deserti e oceani. Ogni tanto mi stabilivo da qualche parte e lavoravo qualche tempo, per guadagnare altri soldi e poter continuare il mio viaggio. Per tutto questo tempo non ho fatto altro che viaggiare. Ho usato tante valute diverse, parlato tante lingue, e non ho più amato nessun'altra donna. Solamente tanti buoni amici sparsi per il mondo. Se chiedi di me a Burgos, in Spagna, tutti mi conoscono. Non avendo più alcun legame, ero libero di andare ovunque, libero. Naturalmente lei mi manca sempre, ogni giorno. Ma, nonostante tutto, non posso lamentarmi della mia vita, e so che lei non avrebbe voluto che mi abbandonassi al dolore. Pochi giorni fa decisi che era tempo di ritornare, per cui eccomi qui. Nel frattempo molte cose sono cambiate, i miei genitori sono morti e la ditta in cui lavoravo non esiste più." Totalmente affascinato dalla sua vita avventurosa, lo guardo interessato. Ci sono tante cose che vorrei chiedergli, ma la mia fermata è vicina, e voglio lasciarlo finire di raccontare la sua storia. Che storia incredibile! "Per cui come mai prima ha detto che è stato il treno, a farla piangere?". Lui alla mia domanda emette un lungo sospiro, poi appoggia la testa sul sedile e chiude gli occhi, rimanendo a lungo in silenzio. Nel frattempo mi guardo un po' intorno: il treno si è svuotato senza che me ne accorgessi, e rimangono solo poche persone. Sono sempre fra gli ultimi a scendere, poiché la mia è la penultima fermata, ed è piacevole godersi l'ultimo pezzo di viaggio con solo pochi altri passeggeri, crea come un'atmosfera di intimità e tranquillità. Finalmente, dopo una lunga pausa, sospira: "vedi, la tratta che faceva Carlo era proprio questa. Solo che questo treno non è Carlo. Quando sono tornato sono venuto subito in stazione per incontrarlo, ma al suo posto arrivò un altro treno, nuovo fiammante. Così sono andato a raccogliere informazioni e mi hanno detto che era ormai un treno troppo vecchio, l'hanno rottamato e ora si trova in un deposito ferroviario. E' morto anche lui. Non ho nemmeno potuto raccontargli la mia storia. Ieri sono riuscito a scoprire dove si trova il deposito dei vecchi treni abbandonati, così stamattina gli ho portato dei fiori. Poi me la sono data a gambe, siccome non sono più un giovanotto temevo che gli passasse per la testa di rottamare anche me. Ti sembrerà sciocco, ma ho voluto più bene a quel treno che a tante persone. Per quello piangevo." Senza dire nulla gli do' una pacca sulla spalla, e in qualche modo cerco di trasmettergli tutta la mia comprensione. "E ora cosa farà?", gli domando dopo qualche minuto in silenzio. "Cosa farò?", risponde aggrottando la fronte, "credo che racconterò il mondo agli altri treni, in memoria di Carlo. Chissà, forse in futuro le storie che racconteranno le avranno sentite da me. Mi sembra una buona cosa". "Davvero un'ottima cosa", rispondo io in conclusione. Poi guardo fuori, e mi rendo conto che siamo arrivati alla mia fermata. "Questa è la mia fermata, devo scendere", gli dico sorridendo. "Vai ragazzo, grazie per la bella chiacchierata, mi ha fatto piacere parlare con qualcuno. Ricordati sempre che se si ha orecchi per sentire si possono ascoltare storie incredibili!". "Me ne ricorderò, non si preoccupi." E' tempo di scendere, dopo il viaggio più interessante che abbia mai fatto. Mi alzo, prendo la mia valigetta e andandomene faccio un gesto di saluto al mio compagno di viaggio. Mentre sto per andare all'uscita, l'uomo aggiunge, facendomi l'occhiolino: "ah, per la cronaca, questo treno si chiama Betti".
  

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