Light painting by rafoto on flickr (licensed CC-BY-NC) |
Nell'infinito protrarsi di un attimo
accadono un'infinità di cose. Nei dintorni di Pechino il signor Chen abbandona
il suo posto di impiegato di banca per andare a raccogliere fragole in
Australia, gettando dalla nave la bella cravatta in seta scura. Sulla rotta
opposta fa ritorno il signor Li, nostalgico della propria terra e della propria
amata, inconsapevole che lei ormai si è sposata e ha messo su famiglia. In
Florida l'inguaribile ipocondriaco signor Jones non dorme al terribile pensiero
dei risultati degli esami medici che gli saranno consegnati il mattino dopo. E'
convinto di avere un tumore, invece non ha nulla. Stress, dirà il medico. Come
sempre. In un'isola deserta al largo della
costa orientale del Canada Jean preme il grilletto della sua vecchia
rivoltella, puntata contro di me. Un gesto innocuo di per sé, quasi banale, che
tuttavia è in grado di dare la morte, senza nemmeno sporcarsi le mani. Questa
volta no. Il grilletto viene premuto e, come normale reazione ad un'azione così
insignificante, non succede nulla. Jean insiste, prova e riprova frustrato ad
ottenere il risultato di morte che dovrebbe dare premendo quel grilletto, ma
niente. Infine si rassegna, lasciando cadere sul terreno sabbioso quella
rivoltella ormai inutile, schiudendo le dita di una mano ormai altrettanto
inutile. Mi guarda, gli occhi pieni di frustrazione e un risentimento senza
pari. Io, dal canto mio, sono stranamente tranquillo, imperturbabile come un
laghetto di montagna ancora sconosciuto al turismo. Non riesco a provare nulla e, dimenticando per qualche istante tutto ciò che mi circonda ed esaminando a
fondo il mio animo, ne scopro il motivo: dentro il mio petto percepisco
distintamente lo strano guscio del giorno prima, come fosse risorto dai propri
cocci. Stavolta è più solido, più robusto, tanto che sembra resistere benissimo
alla potente spinta dall'interno che lo aveva rotto ieri. Stavolta non si
rompe. Con i miei sentimenti e le mie emozioni in qualche modo sigillate torno
a prestare attenzione a Jean, ritto fuori dalla fossa che sarebbe dovuta essere
la mia tomba, un'espressione inebetita dipinta sul volto. Sembra in trance. Lentamente
schiude le labbra per farfugliare qualcosa che non riesco a decifrare, come se
parlasse per emozioni che ormai non conosco più.
"Lei è mia",
scandisce poi, come a rendermi partecipe di un discorso che prima era solo con
sé stesso. "Non è mai stata con nessuno, in paese. Per cui se c'è qualcuno
che ha il diritto di stare con lei sono io, che fino ad oggi le sono stato
vicino più di chiunque altro. Credi che non mi sia reso conto che ve la
intendete alle mie spalle? Credevate forse di potermi prendere in giro
così?". Tutta la rabbia e la frustrazione di Jean emerge lentamente, tanto
che comincia a vibrare e tremare come un razzo al decollo, pronto a raggiungere
le stelle. "Senti, non so che idea ti sei fatto, ma sappi che uccidermi
non ti servirà a nulla" inizio a scandire con tono aspro e secco che
stupisce perfino me stesso, "niente ti servirà. Lei non starà mai con te,
devi fartene una ragione. Credi che sia stato io a portartela via? Non pensi,
piuttosto, che se avrebbe anche solo voluto darti una possibilità te l'avrebbe
già data da tempo? Non siete mai stati altro che amici, e mai lo sarete".
La durezza delle mie parole lo colpisce come un ceffone, l'inaccettabile verità
che lui non ha mai voluto guardare gli viene mostrata con violenza, senza pietà.
Con altrettanta violenza reagisce lui, afferrandomi per la giacca e tirandomi
fuori dalla fossa, gettandomi lontano con forza erculea. Poi si scaglia contro
di me, con la furia distruttrice di una valanga, evidentemente intenzionato a
compiere con le proprie mani quello che la sua inutile rivoltella non è
riuscita a fare. A sangue freddo, le emozioni come paura o pietà congelate nel profondo, non mi è
difficile sconfiggerlo. Lo colpisco una, due, tre volte, sporcandomi del suo
sangue, marchiandomi con le mie colpe senza ipocrisia, e Jean cade a terra
privo di sensi, nient'altro che guscio vuoto. Immediatamente la mia mente
ritorna a ciò per cui, dopotutto, sono qui, in questa isoletta che
probabilmente non conosce altro che questa storia. Il tesoro. Con febbrile
trepidazione faccio ritorno nella fossa, rimuovendo gli ultimi strati di sabbia
e scoprendo una cassa in legno chiaro, lunga più di un metro e chiusa da un
lucchetto. Con enorme sforzo riesco a issarla fuori dalla fossa, per togliere
il lucchetto e scoprire finalmente cosa contiene. Il lucchetto viene via con un
colpo di pala, secco e preciso. Senza pensarci due volte, togliendo ogni
solennità al momento, la apro. Quel che trovo all'interno è talmente inusuale e
sconvolgente che la mia mente non intende accettarlo, concedendomi il dubbio di
credere si tratti di un'allucinazione. All'interno della cassa, rannicchiato in
posizione fetale, come in attesa di rinascere, c'è il misterioso gentiluomo.
Senza darmi il tempo di fare o dire qualcosa di banale si fionda su di me, e in
un attimo seguo Jean fra le braccia di Morfeo. E il tesoro?
Riapro gli occhi e mi ritrovo in una
grande sala bianca, con tante piccole luci che fluttuano nell'aria come enormi
lucciole. A pochi passi da me il gentiluomo le osserva affascinato, come un
bambino che scopre il firmamento. Mi alzo e finalmente si accorge di me,
notando l'espressione incredula e piena di domande che non riesco a nascondergli.
"Ci troviamo all'interno del guscio, quello nel suo petto. Era questa
l'ultima porta." bisbiglia con un sorriso complice e amichevole, quasi a
rivelarmi un segreto. "Sa, era la prima volta che qualcuno lo rompeva. Le
sue motivazioni devono essere proprio forti". "Le mie
motivazioni?", domando stupito, quasi lusingato da quello che sembra un
complimento. "Certamente!", risponde subito lui, con fare esperto,
"vede, ognuno di noi ha tante piccole luci come queste che lo tengono in
vita. Sono le nostre motivazioni. Ad esempio l'amore, le persone care, la passione per il proprio
lavoro, i propri hobby, o anche semplicemente l'amore per la vita. Tutte queste
cose contribuiscono a farci restare in vita. Senza gli uomini non sono altro che polvere di stelle inanimata. Io mi nutro delle motivazioni della persone. Le sembrerà crudele,
ma è la mia natura". Dovrei trovarlo assurdo, ma stranamente le sue parole
mi suonano sensate e familiari, come se in cuor mio ne fossi già consapevole. "Ma
lei chi, o cosa è?", domando ingenuamente, come se conoscere il mostro
perché faccia meno paura, per esorcizzarlo. "Io non sono altro che
un'idea, un concetto metafisico" risponde il gentiluomo, con voce lenta e
profonda, quasi una cantilena, senza smettere di osservare le mie luci, il suo
pasto. "In qualche modo si può dire che Philippe fu mio padre. Fu lui a
concepirmi, nei suoi tanti viaggi nel mondo delle idee, e a rendermi reale,
percepibile. Lui, colui che ha concepito l'idea della mia esistenza, fu il mio
primo pasto in questo mondo. Lui, che mi ha combattuto fino all'ultimo,
cercando qualunque modo per distruggermi. Lui, che non ce l'ha fatta. Gli
esseri umani considerano tutto ciò che è materiale temporaneo, passeggero, mentre
le idee, lo spirito, sono eterni, indistruttibili. La realtà è ben diversa,
amico mio: le idee si affievoliscono, gli ideali si corrompono, lo spirito
invecchia, ancor prima della carne. Io stesso, una semplice idea, ho bisogno di
nutrirmi, tenermi in vita con ciò che tiene in vita voi umani, le vostre
motivazioni. Tuttavia la mia esistenza sarà ben più breve della vostra, temo.
Ah, dimenticavo: mi dispiace averla ingannata, ma non esiste alcun tesoro. Sa,
non tutti hanno abbastanza motivazioni da saziarmi, da permettermi di
continuare ad essere. In un piccolo paesino sperduto come quello in cui esisto le prede sono
terminate in fretta, perciò ho dovuto pensare ad uno stratagemma per attirarle
lì, una sorta di test. Così ho pensato ai messaggi nelle bottiglie. Ne esistono
a migliaia che vagano per il vasto oceano, forse decine di migliaia, in attesa
che qualcuno le trovi. Se quel qualcuno dovesse giungere fin qui come ha fatto
lei, motivato e pieno di speranza, ecco la persona adatta, ecco servita la cena".
Dopo queste sue
parole rimango ammutolito, incredulo e scioccato come lo è stato Jean dalle
mie. La verità, non addolcita da mezze bugie o illusioni, può essere indigesta.
Per tutto questo tempo non ho fatto altro che ballare nel palmo della mano di
quest'essere, ingannatore e infingardo, e l'agognata meta verso la quale ho
corso tutto il tempo altro non era che sciocca illusione. Philippe non è stato
altro che vittima di una creatura nata dalla sua mente, dal suo inconscio
forse, e non c'è destino più beffardo. "Cosa
ne sarà di me, adesso?" domando infine con voce fioca, proveniente da una qualche
parte di me che si è già arresa. "Niente di piacevole, temo",
risponde il gentiluomo, con tono sinceramente dispiaciuto. "Dopo che avrò
finito di nutrirmi delle sue motivazioni il suo corpo, privo di ciò che lo
teneva insieme, si polverizzerà. Tornerà a fare parte del tutto, in pace. Senza
più sogni né incubi. Non soffrirà, glielo prometto" conclude quasi
cercando di rassicurarmi, di cullare la mia mente al pensiero di quell'immensa
pace universale. Senza tuttavia riuscirci. In preda ad un'improvvisa rabbia, ho
ancora la forza di alzare il capo, di stringere i pugni, di combattere. Perciò
mi lancio contro il gentiluomo, nonostante l'empatia e la simpatia che riesce a
suscitarmi, nonostante le sue belle parole, il suo bel portamento e il suo
cappello elegante. Glielo faccio volare via, quel maledetto cappello. Metto
tutta la forza e il peso del mio corpo in un unico diretto, con un unico
pensiero: quello di uccidere. Il gentiluomo, quasi in un moto di pietà, si
dipinge in volto un sorriso mesto, senza nemmeno tentare di evitare il colpo.
Il perché mi è subito chiaro. Il mio pugno, seguito poi da tutto il corpo, gli
passa attraverso senza incontrare la minima resistenza, e mi ritrovo goffamente
a rotolare in avanti, l'equilibrio perduto in un profondo pozzo di odio e
rabbia. "Non si ricorda?" mormora il gentiluomo, il tono addolcito
come se parlasse ad un bimbo, "sono solo un'idea, un concetto. Lei non può
farmi del male".
Dopo aver sentenziato la mia incapacità di fermarlo, come
ad aver messo le cose in chiaro e detto tutto quello che c'era da dire, inizia
silenziosamente a nutrirsi delle tante piccole luci sparse per l'ampia sala. Da
scuro e tetro com'era, inizia a diventare percettibilmente più luminoso,
illuminato dalle motivazioni assimilate. Sento il mio corpo perdere vitalità,
divenendo sempre più arido e polveroso. Dopo che il mio carnefice divora con
gusto una motivazione particolarmente brillante, che in cuor mio percepisco
essere l'amore per Veronique, la mia mano destra si polverizza completamente,
staccandosi e cadendo al suolo granuloso con un tonfo cupo. L'intero braccio la
segue immediatamente dopo, poi l'altro, cadendogli accanto, non più separati
dal busto, ma finalmente uniti. L'essere si nutre con voracità, divenendo
sempre più luminoso, tanto che non riesco più a guardarlo direttamente. Ormai,
nell'ampio salone che è il guscio nel mio petto, è quasi l'unica fonte di luce,
delle tante luci fluttuanti non ne restano che una minima parte. Le gambe
cedono sotto il peso del mio corpo, ora che non hanno più una motivazione per
resistere, e cado carponi. Il mio intero corpo è ormai secco e friabile, solo
un'ultima flebile luce lo tiene insieme. Il gentiluomo ha divorato tutte le
altre. Rimane lei, flebile ma ancora pulsante di vita, e col mio ultimo
pensiero mi domando di cosa possa trattarsi. E' forse il ricordo di mia madre?
Oppure l'affetto per Buck? Forse il karate. L'essere, diventato ormai pura
luce, rimane qualche istante a fissarla in rispettoso silenzio, come si
potrebbe guardare il dessert che termina un lauto e importante pasto. Poi mi
porge un ultimo gesto di saluto, sollevando elegantemente il cappello, e con
calma divora la mia ultima motivazione. Lentamente ma inesorabilmente il mio
corpo si polverizza, disperdendosi nel vuoto che permea l'interno del guscio. La
mia mente sbriciolata non ha più alcun pensiero, il mio cuore in polvere non mi
mostra alcuna immagine di un volto amato, il mio corpo non sente alcun dolore.
Questa è la pace di cui parlava il gentiluomo. I miei occhi, prima di
dissolversi, scorgono un'ultima, straordinaria immagine, probabilmente frutto
di un'allucinazione: dall'essere iniziano a fuoriuscire dei lampi di luce,
incrinature nella sua essenza eterea. Perde molta della luminosità acquisita
dalle mie motivazioni, e scorgo perfino molte di esse fuoriuscire dal suo corpo
e tornare a fluttuare placidamente nella sala, come nulla fosse accaduto. Il
mio corpo ritrova solidità e forma, e senza che me ne accorga mi ritrovo di
nuovo in piedi, ogni parte al suo giusto posto, perfettamente integro. Il
gentiluomo sorride mesto, sconfitto. "E' qualcosa di incredibile",
inizia lento, la voce flebile come le ultime parole di un anziano morente.
"La sua ultima motivazione, l'ultima speranza che la teneva in vita, era
una strana formula. Non una formula qualsiasi, ma che sostiene un fenomeno ben
preciso, con tanta forza che non posso zittirla. La formula che lei ha
conservato con tanta cura nella sua memoria, nella quale ha tanto sperato, e
che le ha dato una motivazione in più per vivere, per credere, postula la mia
non esistenza. Che io non possa esistere. Ora che quell'idea è dentro di me
come posso esistere, se io stesso ormai sono convinto del contrario? Io che mi
nutro di ogni idea che mantiene in vita oggi ne ho assorbito una che nega la
mia, come una cicuta. Ha vinto lei", conclude con sorriso complice, senza
rancore. Tanto che non riesco a portargliene nemmeno io. Senza alcun intento di
schernirlo, faccio il gesto di togliermi un cappello immaginario in gesto di
estremo saluto. Poi il gentiluomo si dissolve, rilasciando tutte le
innumerevoli luci che mi aveva sottratto, ed alcune altre più piccole,
rimasugli di quelle che aveva assorbito dalle precedenti prede. Perdo i sensi, forse per l'ultima volta, col
sorriso sulle labbra.
Mi risveglio
con il viso rivolto al cielo, come a cercare di orientarmi in un mondo che non
riconosco più. Guardandomi intorno non vedo traccia di Jean, e sulla spiaggia
il gommone col quale siamo giunti sull'isola è sparito. Né scorgo poco lontano
la sagoma della barca. Sono solo. Frugandomi in tasca trovo solo il maledetto
messaggio nella bottiglia, scritto dal gentiluomo. Chissà, forse lo spedisco
anche io un messaggio nella bottiglia. Nella capanna di fortuna nella radura
trovo una bottiglia di plastica che fa il caso mio, così ci infilo il
messaggio, la sigillo meglio che posso e la lancio in mare, speranzoso. Non
sono mai stato tanto motivato a vivere. Mi siedo sul limitare del bagnasciuga, fissando l'orizzonte in attesa che qualche nave ne interrompa la morbida linea. Qualcuno arriverà.
Fine