sabato 31 maggio 2014

Il messaggio nella bottiglia - la fine della fine

Light painting by rafoto on flickr (licensed CC-BY-NC)



Nell'infinito protrarsi di un attimo accadono un'infinità di cose. Nei dintorni di Pechino il signor Chen abbandona il suo posto di impiegato di banca per andare a raccogliere fragole in Australia, gettando dalla nave la bella cravatta in seta scura. Sulla rotta opposta fa ritorno il signor Li, nostalgico della propria terra e della propria amata, inconsapevole che lei ormai si è sposata e ha messo su famiglia. In Florida l'inguaribile ipocondriaco signor Jones non dorme al terribile pensiero dei risultati degli esami medici che gli saranno consegnati il mattino dopo. E' convinto di avere un tumore, invece non ha nulla. Stress, dirà il medico. Come sempre.  In un'isola deserta al largo della costa orientale del Canada Jean preme il grilletto della sua vecchia rivoltella, puntata contro di me. Un gesto innocuo di per sé, quasi banale, che tuttavia è in grado di dare la morte, senza nemmeno sporcarsi le mani. Questa volta no. Il grilletto viene premuto e, come normale reazione ad un'azione così insignificante, non succede nulla. Jean insiste, prova e riprova frustrato ad ottenere il risultato di morte che dovrebbe dare premendo quel grilletto, ma niente. Infine si rassegna, lasciando cadere sul terreno sabbioso quella rivoltella ormai inutile, schiudendo le dita di una mano ormai altrettanto inutile. Mi guarda, gli occhi pieni di frustrazione e un risentimento senza pari. Io, dal canto mio, sono stranamente tranquillo, imperturbabile come un laghetto di montagna ancora sconosciuto al turismo. Non riesco a provare nulla e, dimenticando per qualche istante tutto ciò che mi circonda ed esaminando a fondo il mio animo, ne scopro il motivo: dentro il mio petto percepisco distintamente lo strano guscio del giorno prima, come fosse risorto dai propri cocci. Stavolta è più solido, più robusto, tanto che sembra resistere benissimo alla potente spinta dall'interno che lo aveva rotto ieri. Stavolta non si rompe. Con i miei sentimenti e le mie emozioni in qualche modo sigillate torno a prestare attenzione a Jean, ritto fuori dalla fossa che sarebbe dovuta essere la mia tomba, un'espressione inebetita dipinta sul volto. Sembra in trance. Lentamente schiude le labbra per farfugliare qualcosa che non riesco a decifrare, come se parlasse per emozioni che ormai non conosco più. 

"Lei è mia", scandisce poi, come a rendermi partecipe di un discorso che prima era solo con sé stesso. "Non è mai stata con nessuno, in paese. Per cui se c'è qualcuno che ha il diritto di stare con lei sono io, che fino ad oggi le sono stato vicino più di chiunque altro. Credi che non mi sia reso conto che ve la intendete alle mie spalle? Credevate forse di potermi prendere in giro così?". Tutta la rabbia e la frustrazione di Jean emerge lentamente, tanto che comincia a vibrare e tremare come un razzo al decollo, pronto a raggiungere le stelle. "Senti, non so che idea ti sei fatto, ma sappi che uccidermi non ti servirà a nulla" inizio a scandire con tono aspro e secco che stupisce perfino me stesso, "niente ti servirà. Lei non starà mai con te, devi fartene una ragione. Credi che sia stato io a portartela via? Non pensi, piuttosto, che se avrebbe anche solo voluto darti una possibilità te l'avrebbe già data da tempo? Non siete mai stati altro che amici, e mai lo sarete". La durezza delle mie parole lo colpisce come un ceffone, l'inaccettabile verità che lui non ha mai voluto guardare gli viene mostrata con violenza, senza pietà. Con altrettanta violenza reagisce lui, afferrandomi per la giacca e tirandomi fuori dalla fossa, gettandomi lontano con forza erculea. Poi si scaglia contro di me, con la furia distruttrice di una valanga, evidentemente intenzionato a compiere con le proprie mani quello che la sua inutile rivoltella non è riuscita a fare. A sangue freddo, le emozioni come paura o pietà congelate nel profondo, non mi è difficile sconfiggerlo. Lo colpisco una, due, tre volte, sporcandomi del suo sangue, marchiandomi con le mie colpe senza ipocrisia, e Jean cade a terra privo di sensi, nient'altro che guscio vuoto. Immediatamente la mia mente ritorna a ciò per cui, dopotutto, sono qui, in questa isoletta che probabilmente non conosce altro che questa storia. Il tesoro. Con febbrile trepidazione faccio ritorno nella fossa, rimuovendo gli ultimi strati di sabbia e scoprendo una cassa in legno chiaro, lunga più di un metro e chiusa da un lucchetto. Con enorme sforzo riesco a issarla fuori dalla fossa, per togliere il lucchetto e scoprire finalmente cosa contiene. Il lucchetto viene via con un colpo di pala, secco e preciso. Senza pensarci due volte, togliendo ogni solennità al momento, la apro. Quel che trovo all'interno è talmente inusuale e sconvolgente che la mia mente non intende accettarlo, concedendomi il dubbio di credere si tratti di un'allucinazione. All'interno della cassa, rannicchiato in posizione fetale, come in attesa di rinascere, c'è il misterioso gentiluomo. Senza darmi il tempo di fare o dire qualcosa di banale si fionda su di me, e in un attimo seguo Jean fra le braccia di Morfeo. E il tesoro?

Riapro gli occhi e mi ritrovo in una grande sala bianca, con tante piccole luci che fluttuano nell'aria come enormi lucciole. A pochi passi da me il gentiluomo le osserva affascinato, come un bambino che scopre il firmamento. Mi alzo e finalmente si accorge di me, notando l'espressione incredula e piena di domande che non riesco a nascondergli. "Ci troviamo all'interno del guscio, quello nel suo petto. Era questa l'ultima porta." bisbiglia con un sorriso complice e amichevole, quasi a rivelarmi un segreto. "Sa, era la prima volta che qualcuno lo rompeva. Le sue motivazioni devono essere proprio forti". "Le mie motivazioni?", domando stupito, quasi lusingato da quello che sembra un complimento. "Certamente!", risponde subito lui, con fare esperto, "vede, ognuno di noi ha tante piccole luci come queste che lo tengono in vita. Sono le nostre motivazioni. Ad esempio l'amore,  le persone care, la passione per il proprio lavoro, i propri hobby, o anche semplicemente l'amore per la vita. Tutte queste cose contribuiscono a farci restare in vita. Senza gli uomini non sono altro che polvere di stelle inanimata. Io mi nutro delle motivazioni della persone. Le sembrerà crudele, ma è la mia natura". Dovrei trovarlo assurdo, ma stranamente le sue parole mi suonano sensate e familiari, come se in cuor mio ne fossi già consapevole. "Ma lei chi, o cosa è?", domando ingenuamente, come se conoscere il mostro perché faccia meno paura, per esorcizzarlo. "Io non sono altro che un'idea, un concetto metafisico" risponde il gentiluomo, con voce lenta e profonda, quasi una cantilena, senza smettere di osservare le mie luci, il suo pasto. "In qualche modo si può dire che Philippe fu mio padre. Fu lui a concepirmi, nei suoi tanti viaggi nel mondo delle idee, e a rendermi reale, percepibile. Lui, colui che ha concepito l'idea della mia esistenza, fu il mio primo pasto in questo mondo. Lui, che mi ha combattuto fino all'ultimo, cercando qualunque modo per distruggermi. Lui, che non ce l'ha fatta. Gli esseri umani considerano tutto ciò che è materiale temporaneo, passeggero, mentre le idee, lo spirito, sono eterni, indistruttibili. La realtà è ben diversa, amico mio: le idee si affievoliscono, gli ideali si corrompono, lo spirito invecchia, ancor prima della carne. Io stesso, una semplice idea, ho bisogno di nutrirmi, tenermi in vita con ciò che tiene in vita voi umani, le vostre motivazioni. Tuttavia la mia esistenza sarà ben più breve della vostra, temo. Ah, dimenticavo: mi dispiace averla ingannata, ma non esiste alcun tesoro. Sa, non tutti hanno abbastanza motivazioni da saziarmi, da permettermi di continuare ad essere. In un piccolo paesino sperduto come quello in cui esisto le prede sono terminate in fretta, perciò ho dovuto pensare ad uno stratagemma per attirarle lì, una sorta di test. Così ho pensato ai messaggi nelle bottiglie. Ne esistono a migliaia che vagano per il vasto oceano, forse decine di migliaia, in attesa che qualcuno le trovi. Se quel qualcuno dovesse giungere fin qui come ha fatto lei, motivato e pieno di speranza, ecco la persona adatta, ecco servita la cena". 

Dopo queste sue parole rimango ammutolito, incredulo e scioccato come lo è stato Jean dalle mie. La verità, non addolcita da mezze bugie o illusioni, può essere indigesta. Per tutto questo tempo non ho fatto altro che ballare nel palmo della mano di quest'essere, ingannatore e infingardo, e l'agognata meta verso la quale ho corso tutto il tempo altro non era che sciocca illusione. Philippe non è stato altro che vittima di una creatura nata dalla sua mente, dal suo inconscio forse, e non c'è destino più beffardo.  "Cosa ne sarà di me, adesso?" domando infine con voce fioca, proveniente da una qualche parte di me che si è già arresa. "Niente di piacevole, temo", risponde il gentiluomo, con tono sinceramente dispiaciuto. "Dopo che avrò finito di nutrirmi delle sue motivazioni il suo corpo, privo di ciò che lo teneva insieme, si polverizzerà. Tornerà a fare parte del tutto, in pace. Senza più sogni né incubi. Non soffrirà, glielo prometto" conclude quasi cercando di rassicurarmi, di cullare la mia mente al pensiero di quell'immensa pace universale. Senza tuttavia riuscirci. In preda ad un'improvvisa rabbia, ho ancora la forza di alzare il capo, di stringere i pugni, di combattere. Perciò mi lancio contro il gentiluomo, nonostante l'empatia e la simpatia che riesce a suscitarmi, nonostante le sue belle parole, il suo bel portamento e il suo cappello elegante. Glielo faccio volare via, quel maledetto cappello. Metto tutta la forza e il peso del mio corpo in un unico diretto, con un unico pensiero: quello di uccidere. Il gentiluomo, quasi in un moto di pietà, si dipinge in volto un sorriso mesto, senza nemmeno tentare di evitare il colpo. Il perché mi è subito chiaro. Il mio pugno, seguito poi da tutto il corpo, gli passa attraverso senza incontrare la minima resistenza, e mi ritrovo goffamente a rotolare in avanti, l'equilibrio perduto in un profondo pozzo di odio e rabbia. "Non si ricorda?" mormora il gentiluomo, il tono addolcito come se parlasse ad un bimbo, "sono solo un'idea, un concetto. Lei non può farmi del male". 

Dopo aver sentenziato la mia incapacità di fermarlo, come ad aver messo le cose in chiaro e detto tutto quello che c'era da dire, inizia silenziosamente a nutrirsi delle tante piccole luci sparse per l'ampia sala. Da scuro e tetro com'era, inizia a diventare percettibilmente più luminoso, illuminato dalle motivazioni assimilate. Sento il mio corpo perdere vitalità, divenendo sempre più arido e polveroso. Dopo che il mio carnefice divora con gusto una motivazione particolarmente brillante, che in cuor mio percepisco essere l'amore per Veronique, la mia mano destra si polverizza completamente, staccandosi e cadendo al suolo granuloso con un tonfo cupo. L'intero braccio la segue immediatamente dopo, poi l'altro, cadendogli accanto, non più separati dal busto, ma finalmente uniti. L'essere si nutre con voracità, divenendo sempre più luminoso, tanto che non riesco più a guardarlo direttamente. Ormai, nell'ampio salone che è il guscio nel mio petto, è quasi l'unica fonte di luce, delle tante luci fluttuanti non ne restano che una minima parte. Le gambe cedono sotto il peso del mio corpo, ora che non hanno più una motivazione per resistere, e cado carponi. Il mio intero corpo è ormai secco e friabile, solo un'ultima flebile luce lo tiene insieme. Il gentiluomo ha divorato tutte le altre. Rimane lei, flebile ma ancora pulsante di vita, e col mio ultimo pensiero mi domando di cosa possa trattarsi. E' forse il ricordo di mia madre? Oppure l'affetto per Buck? Forse il karate. L'essere, diventato ormai pura luce, rimane qualche istante a fissarla in rispettoso silenzio, come si potrebbe guardare il dessert che termina un lauto e importante pasto. Poi mi porge un ultimo gesto di saluto, sollevando elegantemente il cappello, e con calma divora la mia ultima motivazione. Lentamente ma inesorabilmente il mio corpo si polverizza, disperdendosi nel vuoto che permea l'interno del guscio. La mia mente sbriciolata non ha più alcun pensiero, il mio cuore in polvere non mi mostra alcuna immagine di un volto amato, il mio corpo non sente alcun dolore. Questa è la pace di cui parlava il gentiluomo. I miei occhi, prima di dissolversi, scorgono un'ultima, straordinaria immagine, probabilmente frutto di un'allucinazione: dall'essere iniziano a fuoriuscire dei lampi di luce, incrinature nella sua essenza eterea. Perde molta della luminosità acquisita dalle mie motivazioni, e scorgo perfino molte di esse fuoriuscire dal suo corpo e tornare a fluttuare placidamente nella sala, come nulla fosse accaduto. Il mio corpo ritrova solidità e forma, e senza che me ne accorga mi ritrovo di nuovo in piedi, ogni parte al suo giusto posto, perfettamente integro. Il gentiluomo sorride mesto, sconfitto. "E' qualcosa di incredibile", inizia lento, la voce flebile come le ultime parole di un anziano morente. "La sua ultima motivazione, l'ultima speranza che la teneva in vita, era una strana formula. Non una formula qualsiasi, ma che sostiene un fenomeno ben preciso, con tanta forza che non posso zittirla. La formula che lei ha conservato con tanta cura nella sua memoria, nella quale ha tanto sperato, e che le ha dato una motivazione in più per vivere, per credere, postula la mia non esistenza. Che io non possa esistere. Ora che quell'idea è dentro di me come posso esistere, se io stesso ormai sono convinto del contrario? Io che mi nutro di ogni idea che mantiene in vita oggi ne ho assorbito una che nega la mia, come una cicuta. Ha vinto lei", conclude con sorriso complice, senza rancore. Tanto che non riesco a portargliene nemmeno io. Senza alcun intento di schernirlo, faccio il gesto di togliermi un cappello immaginario in gesto di estremo saluto. Poi il gentiluomo si dissolve, rilasciando tutte le innumerevoli luci che mi aveva sottratto, ed alcune altre più piccole, rimasugli di quelle che aveva assorbito dalle precedenti prede.  Perdo i sensi, forse per l'ultima volta, col sorriso sulle labbra.


Mi risveglio
con il viso rivolto al cielo,  come a cercare di  orientarmi in un mondo che non riconosco più. Guardandomi intorno non vedo traccia di Jean, e sulla spiaggia il gommone col quale siamo giunti sull'isola è sparito. Né scorgo poco lontano la sagoma della barca. Sono solo. Frugandomi in tasca trovo solo il maledetto messaggio nella bottiglia, scritto dal gentiluomo. Chissà, forse lo spedisco anche io un messaggio nella bottiglia. Nella capanna di fortuna nella radura trovo una bottiglia di plastica che fa il caso mio, così ci infilo il messaggio, la sigillo meglio che posso e la lancio in mare, speranzoso. Non sono mai stato tanto motivato a vivere. Mi siedo sul limitare del bagnasciuga, fissando l'orizzonte in attesa che qualche nave ne interrompa la morbida linea. Qualcuno arriverà.


Fine

venerdì 23 maggio 2014

Il messaggio nella bottiglia - l'inizio della fine


Photo by Kathleen Logan

Il sole, sorgendo, sgrana gli occhi stupito nel trovarci uniti al suo arrivo, come un fatto imprevisto nell'immenso ordine cosmico. Contro ogni legge fisica le nostre vite hanno iniziato ad orbitare l'una intorno all'altra, indissolubilmente legate in una danza perpetua. Secondo i patti Jean non sarebbe arrivato prima delle undici, in modo da partire quando tutte le altre navi sarebbero già salpate, così da non dare nell'occhio. "Rimani un indesiderato", disse due sera fa, con tono grave, "se qualcuno dovesse vederti sarebbe un gran casino. Non deve assolutamente succedere". Così, essendoci svegliati ben prima delle undici, passiamo diverse ore come sospesi in una bolla, essendo al contempo sia troppo tardi che troppo presto per fare qualunque cosa. Troppo tardi per prepararsi e premunirsi a tutto ciò che posso incontrare nel mio, sebbene breve, pericoloso viaggio. Troppo presto per pensare al dopo. Possiamo solo aspettare, e pregare che questa bolla scoppi presto, con lo scampanellio rivelatore dell'arrivo di Jean. L'unica precauzione che non posso fare a meno di prendere è trascrivere l'incomprensibile formula sottolineata ed evidenziata dell'ultima pagina di Philippe, come una sorta di arma segreta contro l'ignoto. Philippe evidentemente credeva nella sua importanza, e ci credo anche io. Devo crederci. Senza questa flebile luce di speranza, non avrei la forza di proseguire per la mia strada, rassegnandomi ad un'esistenza più sicura ma monotona. Come la mia vita precedente, che ormai mi spaventa a tal punto che, per sfuggirle, ho messo un oceano di distanza fra me e lei, e una buona metà del globo terracqueo. Un senso di timore perfino superiore a quello che provo per l'uomo che molto presto tenterà di prendersi la mia vita, senza che io abbia un modo preciso di impedirglielo. Solo una piccola speranza. Solo una piccola luce rischiara i miei passi, quel tanto che basta da non farmi percepire il freddo della notte, né il gelo della paura, né il vuoto baratro nel quale rischio di cadere.  Le ore trascorrono silenziosamente, senza lasciare traccia di sé nell'infinita spiaggia del tempo, come un'amante che, dopo una notte di passione, scivola furtivamente fuori dalla porta, fuori dalla tua vita. Finalmente, alle undici e mezza, l'improvviso trillo del campanello ci sussurra che il momento è arrivato, che Jean è qui, e non c'è più tempo per nulla. Ci salutiamo con leggerezza, scambiandoci un delicato bacio, come se stessi semplicemente andando in ufficio. Prima di andare mi porge un vecchio zainetto, logoro ma ricco di storie da raccontare, contenente leccornie e viveri vari preparati amorosamente da lei nelle vuote ore d'attesa. "Non credo che riuscirai a tornare prima di domani", mormora come a giustificarsi, "dovrai pur mangiare qualcosa, no?" "Grazie di cuore, davvero. Tornerò presto, promesso", rispondo consegnandole ogni parola inespressa con un ultimo bacio. L'ultimo di oggi, perlomeno. Jean, con la sua solita espressione sorniona di chi ha capito tutto, mi aspetta nel paradisiaco giardino, con un solo piccolo bagaglio. "Tutto quello che ci serve è già sulla barca", dice come a rispondere ad una domanda che ho solo pensato. "Bando alle smancerie, sbrighiamoci o ci fregheranno il tesoro da sotto il naso". Un ultimo cenno di saluto e siamo già in cammino verso il porto, attraversando la vacuità del paese accarezzato finalmente da un sole giovane e generoso. I nostri passi rimbombano per le vie deserte, creando in me l'illusoria convinzione che non esista più nessuno al mondo. Jean cammina al mio fianco, immerso in chissà quali pensieri, ragionamenti e paure. Riflesso nei suoi occhi mi sembra di scorgere il mare e il viaggio che tra poco intraprenderemo, come specchio di quel che succede nella sua mente. Finalmente giungiamo al porto, trovandolo ancor più deserto e abbandonato del paese, e mi stupisco di come qualche sera potesse essere così poco rassicurante e pericoloso. Alla luce del giorno, così abbandonato, mi suscita solamente una strana malinconia, come al vedere la casa dove si è trascorsa l'infanzia abbandonata e in sfacelo, i ricordi a marcire nella polvere. Con aria compiaciuta mi conduce fino alla sua barca, un peschereccio di una ventina di metri grigio e lurido, ma che ai suoi occhi sembra avere la maestosità del Titanic. "Benvenuto nel mio umile vascello", dice Jean accompagnando le parole ad un solenne gesto del braccio, invitandomi a salire. Il viaggio è semplicemente una noia totale. Circa tre ore di navigazione nella calma piatta dell'oceano, trascorse a parlare del più e del meno e sorseggiando lentamente del whiskey che Jean si è premunito di portare in due diverse fiaschette, come se senza non saremmo potuti partire. Quando scorgiamo finalmente la scura sagoma dell'isola, un isolotto di circa tre chilometri di lunghezza  i cui soli abitanti sembrano le alte e antiche conifere, il mio cuore compie un'acrobatica capriola nel petto. Ora è lì, posso vederla, posso toccarla, posso quasi sentire l'odore fresco dei pini giungere in una brezza sino a me. Come ultimo gesto prima di scendere a terra, ricercando noncuranza, mangio due panini alla pancetta e sottaceti preparati da Veronique. Infine Jean butta l'ancora ad una ventina di metri dalla costa, che poi percorriamo in un piccolo gommone a motore dalla lentezza snervante. "Ho portato delle pale e delle corde", racconta Jean, euforico, "come ogni caccia al tesoro che si rispetti dovremo scavare, no?". Annuisco divertito, coinvolto dall'entusiasmo dell'uomo col quale condivido questa strana avventura. Una volta giunti a terra decidiamo subito di esplorare il piccolo isolotto alla ricerca del fantomatico uomo che ha scritto il messaggio nella bottiglia. Dopo aver girovagato per il bosco, per le spiagge, per le basse alture rocciose dell'isola, scopriamo una piccola radura al centro del bosco, dove incontriamo di nuovo i raggi del sole prima oscurati dagli alti alberi. Al suo interno troviamo una piccola costruzione di fortuna, costruita con vari tronchi, rami e fronde degli alberi dell'isola. Sparsi lì intorno vari utensili, delle corde, una radio rotta e un diario reso ormai illeggibile dalla pioggia. Ma non è quello che ci interessa, non più dopo che i nostri occhi finalmente lo vedono, così netto e definito da non poter far finta di non averlo notato. Poco lontano dalla capanna di fortuna troviamo il cadavere di un uomo, gonfio e ormai piuttosto decomposto. Ci guardiamo per un lungo istante, attoniti, senza riuscire a dire nulla. Infine Jean, dimostrandosi poco debole di stomaco, gli si avvicina, notando un particolare che ad una prima occhiata non avevamo scorto, e da una tasca della giacca del morto estrae un foglio che pare sia stato risparmiato dalle intemperie. Con cautela, come se inconsciamente temessi che il cadavere riprenda viva e ci attacchi, mi avvicino a Jean, per scoprire insieme a lui cosa riveli quel foglio. Prima che potessi trarre una conclusione, la voce di Jean erompe entusiasta: "è una mappa! Una maledetta mappa!", grida euforico. "Il tesoro è seppellito ai margini della radura, proprio da quella parte", urla indicando in direzione di un punto poco lontano da noi. Colti dall'entusiasmo, o forse da bramosia, prendiamo le pale e le corde e corriamo a scavare, dimenticando il cadavere e tutto il resto. Scaviamo per diverso tempo, non so dire se mezz'ora o più, quando finalmente la mia pala impatta contro un corpo solido un paio di centimetri sotto il fondo della fossa profonda circa un metro e mezzo. Con la coda dell'occhio scorgo Jean che si affretta ad uscire, come se avessero buttato una bomba a mano nella fossa. Ma non è lui ad essere in pericolo. Voltandomi verso di lui, in cerca di spiegazioni, mi rendo conto di non averne bisogno: rivolta verso di me c'è la lucida e fredda canna di una pistola, impugnata da un irriconoscibile Jean.

mercoledì 7 maggio 2014

Il messaggio nella bottiglia - undicesima parte





L'alba dell'ultimo giorno prima della partenza mi viene incontro a mezzogiorno, quando i miei occhi spenti si schiudono nella penombra della stanza. Adesso che posso contare le ore che rimangono percepisco il mio corpo e il mio animo come un guscio vuoto, privo di emozioni e pensieri. Potrebbe sembrare la classica calma prima della tempesta, ma sento che è qualcosa di più complesso, e al contempo basilare e naturale: forse è un primo accenno di ciò che avverrà presto. La morte, il nulla, scomparire. La percepisco echeggiarmi dentro, non spaventosa, dolorosa o fredda. Mi appare piuttosto come una malinconica e immobile assenza, come il binario della stazione dopo che il treno della propria amata è sparito all'orizzonte. Rimango qualche istante coricato a fissare, senza guardarlo, il soffitto della stanza, scavando e ricercando dentro di me la luce della felicità provata appena ieri, senza trovarla. Il guscio duro e cavo all'interno del mio cuore ostacola la mia ricerca, come se i sentimenti e le emozioni del mondo dei vivi fossero ormai precluse a me che, in parte, non vi appartengo più. Sono in bilico tra i due mondi, e ho assolutamente bisogno che qualcosa, dal mondo dei vivi, mi trascini con forza dall'altra parte. Un'ancora di salvezza. Improvvisamente sento il rigido guscio interiore incrinarsi sotto la spinta di qualcosa di immensamente potente che spinge dall'interno, come un pulcino che becca con forza il guscio per poter, finalmente, venire alla luce, e oltrepassare lo strano limbo tra i due mondi nel quale mi trovo anche io. Finalmente erompe, sbriciolando il guscio che stringeva il mio animo. Nella mia mente affiora il viso di Veronique, il suo sorriso, la sua risata, rompendo le catene del mio amore e sciogliendo il gelo che rendeva sterile e arido il mio cuore. Al suo seguito, come una lunga catena di persone che si tengono per mano, si susseguono una miriade di immagini e colori fantasmagorici, ricordi della mia gioventù, il volto di amici perduti col tempo, il mio maestro. L'altalena dove giocavo da piccolo, innumerevoli pomeriggi d'estate senza una nuvola a creare pensieri. Tante piccole luci che, viste da più lontano, ne formano una più grande e potente: la vita. Nuova speranza e vitalità pervade ogni cellula del mio corpo, spargendosi come spore di un soffione dalla cavità toracica dove prima risiedeva quel misterioso guscio. Incredulo ed euforico, mi alzo dal letto e mi cambio in fretta, indossando abiti puliti che odorano lievemente di sapone casereccio. Mi dirigo in cucina quasi correndo, determinato a cavare qualsiasi informazione utile dal diario di Philippe, anche a costo di usare la forza. Che gli piaccia o meno, sopravvivrò. Arrivato in cucina e preso il diario, tuttavia, il pensiero di Buck fuori da due giorni mi attraversa la mente come un fulmine, per cui decido di andare da lui. Giunto alla porta di casa la trovo aperta. Veronique, uscendo stamane, non può certo aver dimenticato la porta aperta. Tuttavia lo è, una verità così evidente e pesante da farmi cedere le gambe. Voltandomi lentamente scorgo, con la coda dell'occhio, il gentiluomo dignitosamente ritto in salotto. Nonostante ci siano un comodo divano e una ancor più comoda poltrona lui rimane in piedi, serio e ligio al dovere come una guardia reale. Per la prima volta decido di rivolgergli parola. "E' venuto a prendermi? E' già arrivato il momento, ora che ha aperto l'ultima porta?". Lui, stupito dalla mia domanda a bruciapelo, sgrana gli occhi come colpito da una secchiata di acqua fresca. "No, no, non è ancora giunto il momento. Rimane ancora una porta", risponde con un sorriso affabile, come un passante gentile a cui si chiede indicazioni. Le sue parole, tuttavia, non fanno altro che creare altri dilemmi, non risolvono nulla. Tuttavia mi concedono altro tempo, ed è quello che conta. Saluto il gentiluomo con un gesto della mano ed esco fuori, diario alla mano. Trascorro l'intera mattinata con Buck, cosa che sembra renderlo felice. Deve aver sentito la mia mancanza, e non posso fare a meno di sentirmi un po' in colpa. Ogni tanto leggo le pagine del diario, ormai mancano solo poche pagine per finirlo e non ho ancora trovato qualche informazione utile. Nonostante tutto, la speranza che pervade ogni fibra del mio corpo non mi fa preoccupare granché. Prima o poi troverò qualcosa, poco ma sicuro. Per pranzo Veronique fa una breve comparsata, mangiamo insieme delle cotolette di pollo con insalata, e parliamo del più e del meno. Pare che entrambi vogliamo vivere questa giornata in maniera più spensierata possibile. Mi confida che Jean è cotto di lei da quando erano ragazzini, lo ha sempre saputo, come se ne sono accorti da tempo in paese. L'unico che crede che sia il suo più grande segreto è lo stesso Jean, come se non si rendesse conto di quanto sia evidente. Non si è mai dichiarato, forse per consapevolezza di essere rifiutato, e a Veronique sta bene così, non gli ha mai dato speranze dopotutto. Non posso fare a meno di sentirmi infastidito, e al contempo rassicurato dal fatto che lei non ama quell'uomo, né nessun altro. Finito di mangiare torna al suo negozio, cancellando ogni malinconia dal nostro saluto sfiorandomi dolcemente le labbra con le sue, morbide e delicate. Quel singolo bacio mi ancora maggiormente al mondo dei vivi, trasportandomi alle più alte vette di euforia e felicità. Voglio vivere, vivere con lei, vivere per lei e grazie a lei. Ritorno, con la mente immersa in pensieri di un futuro felice, sul diario di Philippe, sedendomi sul prato vicino a Buck. Dopo un lauto pranzo a base di terribile cibo per cani è sonnacchioso e indolente come un adolescente dopo la scuola. Finalmente arrivo all'ultima pagina, dopo pagine e pagine di formule cancellate con decisi tratti di biro e parole frammentarie e sconnesse. Vi trovo una formula scritta in bella calligrafia, sottolineata più volte e incorniciata con una greca molto semplice, come quelle che facevo da bambino. Sembra essere importante, così la imprimo nella memoria come una fotografia, cercando in ogni modo di mantenerla integra nella mia mente. E' una formula complessa e formata da segni e caratteri a me sconosciuti, ma sento fin nel profondo del cuore che è di vitale importanza, e questo basta a stamparla nella mia memoria in maniera definitiva. Ora che ho finalmente finito di leggere il diario, posso ritenere conclusa la mia preparazione, così decido di passare le ultime ore di questo ormai soleggiato pomeriggio a giocare con Buck, spensierato. Mi sembra di essere tornato bambino, in quegli infiniti pomeriggi estivi senza nuvole né pensieri. Nessun pensiero. L'uomo che mi ucciderà è nel salotto di casa, io volo alto nei cieli inesplorati della felicità. Intorno alle sette Veronique fa ritorno a casa, e mi prepara una cena speciale, sostanziosa e deliziosa. Dopo cena, come se ci attraesse inevitabilmente a sé, finiamo nel suo letto. Un letto grande e morbido, forse fin troppo comodo per non addormentarcisi dolcemente, ma con lei al mio fianco è impossibile non rimanere sveglio. Iniziamo a baciarci, prima timidamente e esitanti (trovo che sia quasi miracoloso che alla nostra età ormai matura si possa ancora essere timidi nell'intimità), poi con più passione, ed euforia. I nostri corpi si avvicinano e si stringono, quasi fossero due metà di una stessa mela che vogliono tornare un'unica cosa. Era da moltissimo tempo che non entravo in intimità con una persona, e la mia paura più grande era essere goffo e impacciato, sarebbe stata una vergogna grandissima. Invece mi viene tutto spontaneo, naturale, come se fossi nato per baciarla, e amarla. L'euforia del momento sta per trascinarci ad un'intimità più profonda e completa, lei, sorridendo, mi ferma. "Dopo che sarai tornato", sussurra dolcemente, baciandomi ancora. "Così hai un motivo in più per tornare, no?" conclude sorridendo, illuminandomi ancora con la bellezza del suo sorriso. Così ci addormentiamo, felici e finalmente uniti, noncuranti del pericolo che dovrò affrontare domani, noncuranti di tutto. L'universo si riduce in questo letto, e nulla al di fuori di esso esiste più. Almeno per stanotte.