lunedì 23 giugno 2014

Lo spacciatore di chewing gum

Fonte: www.simonedecker.com



Da mio padre ricevetti un'educazione che potrei definire alquanto nichilista. Fin dalla più tenera età, noncurante di quanto in quegli anni la spensieratezza e l'ingenuità valgano più di qualsiasi cosa, mi ha sempre ripetuto che nella vita l'unica vera certezza è la morte. Non ne esistono altre. Fin dalla più tenera età, a queste sue parole, sono solito afferrarmi i genitali in gesto scaramantico. Con discrezione, per non mostrarmi irrispettoso dinanzi a ciò che sembrava essere l'unico insegnamento che avesse da trasmettermi. In una fredda mattina di inizio inverno, quando avevo circa nove anni, approfondì il discorso davanti a due tazze di the fumante. "Come ti ho già detto e ridetto mille volte, la morte è l'unica certezza che abbiamo al mondo " iniziò con voce profonda e piatta, tanto da farmi ciondolare la testa dal sonno, "tuttavia esistono, nel suo infinito e incomprensibile meccanismo, alcuni fatti che, se non accadono imprevisti, sono molto vicini ad essere una certezza. Naturalmente gli imprevisti sono praticamente infiniti, mentre i fattori che, mescolandosi ad arte, fanno sì che quel fatto accade, sono relativamente pochi. Pensa al fatto di prendere un pullman: in linea di massima arriverà all'ora indicata nel tabellone con gli orari. Ma potrebbe succedere che buchi una ruota, o che l'autista abbia un malore, o perfino che gli cada un meteorite addosso. Ovviamente è molto difficile che ci sia qualche imprevisto, ma può sempre succedere. Così è per quelle che io definisco "costanti": a meno che non vi siano imprevisti accadono costantemente, in maniera regolare. La saggezza sta nel riconoscerle dai particolari che fanno sì che queste avvengono.  Se sarai in grado di riconoscere e comprendere i segnali che il mondo trasmette, sarà come prendere l'autobus potendo leggere il tabellone con gli orari. Sempre che non accadano imprevisti." Ricordo perfettamente ogni minimo particolare di quella conversazione: i vestiti che indossavamo, il sapore del the, il ritmo altalenante della sua voce e il pigro e cupo gracchiare di una cornacchia nel giardino di casa. Probabilmente perché fu l'ultima vera conversazione che ebbi l'occasione di avere con lui. Come a volermi dimostrare fino in fondo la veridicità delle sue parole, mio padre se ne andò all'improvviso, pochi mesi più tardi, in una silenziosa notte di fine inverno. Naturalmente il dolore fu immenso, sconfinato come le profondità del cuore e della mente, ma il dolore non fu l'unico protagonista. Compresi quel giorno che si diventa uomini solamente alla scomparsa del proprio padre, perdendo l'unica persona ai cui occhi rimarremo sempre quei paffuti bambini ai quali bisogna insegnare tutto. Io non ero pronto, immerso nell'innocenza dei miei anni, a perdere insieme a mio padre l'idea della mia infanzia, di potermi ancora permettere di essere sgridato, incoraggiato, coccolato. Tutto ciò finì in quella fredda notte di fine inverno. La primavera non tardò mai così tanto ad arrivare.

Non sono mai stato molto avvezzo al concetto di lutto. Sembra lasci intendere che il dolore per la perdita di una persona cara sia solo una fase passeggera, come quelle noiose giornate passate a casa con la febbre, per poi tornare alla normalità. Ma non si torna più indietro. Le persone scomparse non tornano in vita, e le occasioni in cui sentiremo distintamente la loro mancanza si presenteranno per tutta la vita. Mio padre mi è mancato il giorno del mio diploma, quando orgoglioso e con le lacrime agli occhi mi avrebbe calorosamente stretto la mano, facendomi sentire grande. Mi mancherà quando un giorno avrò dei figli, e lui li avrebbe cullati come fece con me, realizzando di essere invecchiato. Mi è mancato il giorno in cui finalmente, dopo più di dieci anni dalla sua scomparsa, scoprii per la prima volta una costante. Successe tutto in una grigia mattina di inizio primavera, poco dopo l'anniversario della sua scomparsa. Una finissima pioggerellina cadeva perpetua da diverse ore, tanto fitta da rendere difficoltoso tenere gli occhi aperti. Quel giorno andai alla segreteria della mia università con una mia amica, anch'essa iscritta agli studi, per porre entrambi fine al nostro lungo e infruttuoso percorso di studi. Sotto quella pioggia fine chinammo insieme il capo di fronte ad una strada che, dopotutto, non ha mai fatto per noi. Per recarci alla segreteria prendemmo la metropolitana e fu lì che trovai la costante, il tabellone con gli orari dell'autobus per potermi muovere nel mondo. Arrivati sulla banchina dove sarebbe arrivato il treno notai che la mia amica guardò per qualche istante per terra, scrutando con sguardo concentrato la pavimentazione ingrigita. Dopodiché si diresse a passo sicuro in un preciso punto a circa due terzi della banchina, e mi consigliò di rimanere lì: il treno si sarebbe fermato con le porte esattamente di fronte a noi, e saremmo riusciti a salire subito. Inutile dire che fu proprio quello che successe. Le porte del treno si aprirono esattamente davanti a noi, e nel mio stupore riuscimmo anche a trovare posto a sedere, entrando nel vagone prima di tutti gli altri. Riconobbi subito che non era un fatto casuale, doveva per forza trattarsi di una costante. In un profondo stato di euforia, come l'archeologo che ritrova dopo millenni la leggendaria tomba di un antico re egizio, domandai spiegazioni alla mia amica. In un sussurro mi confidò la sua teoria, con fare cospiratorio, come se ciò che stava per rivelarmi fosse un segreto in grado di scuotere le fondamenta del mondo. Secondo tale teoria, o costante, pare sia molto semplice capire dove si apriranno le porte: basta osservare con attenzione la banchina. L'area in cui si trovano più chewing gum buttati a terra è dove si aprono le porte. Questo perché il momento più probabile in cui le persone sputano il chewing gum è salendo e scendendo dal treno. Non durante il viaggio, o mentre aspettano che arrivi il treno, ma nell'attimo di transizione, dove si compiono la maggior parte delle scelte. Il mio cuore effettuò svariate capriole, scosso da emozioni profonde ed echi di ricordi lontani: avevo trovato una costante. In un giorno di sconfitta come quello, col capo chino sotto la pioggia battente, trovai per terra una saggezza più preziosa di qualsiasi laurea. In quel momento pensai a quanto mio padre sarebbe stato lieto per me, e il suo ricordo e la sua mancanza non sono mai stati tanto vivi.



Da quel giorno la mia vita di tutti i giorni migliorò radicalmente. Con passo deciso, dopo aver scovato l'area dove si trovavano più chewing gum spiaccicati e anneriti, riuscivo ad entrare sul treno appena si fermava, trovando spesso posto a sedere. Non arrivavo mai tardi ad un appuntamento, né al lavoro, e vi giungevo più fresco e riposato. Scoprii ben presto quanto fossero utili le costanti, e aguzzavo i miei sensi nel tentativo di individuarne degli altri, senza tuttavia riuscire a trovarne. La mia amica, prima che ci perdessimo di vista nel caos del mondo, mi fece dono di una costante che si rivelò utilissima, e forse il già magnanimo destino non ne prevedeva altre. Mi stava bene così. Nel mio piccolo ero felice. Ma, nonostante la loro apparente rarità, arrivò il giorno che gli imprevisti bussarono alla mia porta, con tanta veemenza da scardinarla. Successe circa due anni da quella piovosa mattina in metropolitana. In un fatidico mattino d'inizio estate lessi sul giornale che il chewing gum era diventato illegale a causa della scoperta che il suo ingrediente principale era dannoso per l'organismo. Particolarmente dannoso. Tanto che, con una bella campagna con la quale l'unica cosa che voleva ripulire era la propria immagine, il sindaco della mia città la fece pulire da cima a fondo, cancellando ogni traccia di chewing gum dalle strade. E dalle banchine delle stazioni metropolitane. Fu come perdere la vista dopo aver visto l'imperturbabile profondità del cielo stellato. Come perdere l'uso delle gambe dopo aver percorso per miglia e miglia la meravigliosa varietà del mondo. Iniziai ad arrivare tardi al lavoro e agli appuntamenti, non riuscendo più a salire nei treni affollati dell'ora di punta. Ero più stanco, e stressato, e amareggiato. Avevo perso l'unica certezza che avevo al mondo. Trascorsi gli anni successivi spaesato e sperduto in un mondo che non riuscivo più a comprendere né a prevedere. Ma anche questo non poteva durare per sempre. Il ragionamento era semplice, tuttavia non ci avevo mai pensato prima di allora: se gli imprevisti sconvolgono il delicato equilibrio delle costanti, facendole crollare come castelli di carte, l'imprevisto stesso può crollare sotto la spinta di un'altro imprevisto. Logico, no? Ci volle tempo per realizzare la mia idea, un certo investimento economico e qualche litigata con mia moglie, contraria fin da subito a questa follia. Alla fine, dopo alcuni mesi di preparativi, ero pronto a metterla in pratica, manovrando e guidando il destino a mio piacimento. Fu così che diventai uno spacciatore di chewing gum. Da allora il marciapiede della metropolitana è nuovamente tappezzato da chewing gum ad indicarmi la via. Come la coscienza del sindaco. 

martedì 10 giugno 2014

Rabbia di vetro

"Loneliness" by Ahmed Law


La donna di mezza età, che da quando ho memoria si prende cura di me e che a rigor di logica dovrei chiamare mamma, mi chiama Toby. Così come mi chiama suo marito, o papà, e i loro figli. O fratelli. Perfino il cagnolino, un chiassoso chihuahua la cui mole è inversamente proporzionale alla sua aggressività, sembra voler imitare i padroni e, in un patetico tentativo di compiacerli, sembra scandire coi suoi acuti latrati il nome Toby. Sentirmi continuamente appellare con quel nome, senza che nessuno mi abbia mai chiesto un parere al riguardo, è la seconda voce in ordine di gravità nella lista delle umiliazioni che mi tocca subire. Spesso mi domando come mi avesse chiamato mia madre, in origine. Thomas, ad esempio, sarebbe stato proprio un bel nome. Credo di avere proprio una faccia da Thomas, come hanno potuto compiere l'errore madornale di chiamarmi Toby? Non riesco a ricordare come mai non sono rimasto con la mia vera madre, cosa le sia successo, e perché invece mi ritrovo da tempo immemore con questa famiglia che ha deciso che il mio nome è Toby. Mormorii che a tratti sono riuscito a cogliere nel tempo parlano di un altro fratello che un tempo viveva nella mia stanza. Non sono mai riuscito a capire cosa gli sia successo, i miei pseudo genitori sono molto attenti a non lasciarsi sfuggire notizie al riguardo. Questo fantomatico fratello scomparso è stata la mia ossessione per moltissimo tempo. Ne ho cercato le tracce in ogni angolo della stanza, qualcosa che possa rivelarmi che qualcuno sia stato qui prima di me. Invano. Ma ormai non ha più importanza. Nulla ha più importanza. Poiché stanotte li ucciderò. Questo a causa della prima voce nella famosa lista delle umiliazioni che questa famiglia mi infligge. La solitudine. Ogni giorno li vedo uscire a vivere la propria vita, ognuno con le proprie gioie e i propri dolori. I miei fratelli vanno a scuola, e ogni tanto si innamorano. Solo ogni tanto. Hanno dei buoni amici che vengono spesso in casa, principalmente per godere tutti insieme delle gioie della nuova consolle per videogiochi. Anche i miei genitori hanno una bella vita sociale: i loro colleghi di lavoro sono persone simpatiche e alla mano e spesso sono ospiti per cena a casa nostra. Fanno anche delle belle vacanze insieme, figli al seguito. Quasi tutti almeno, poiché per me non c'è posto in tutto ciò. Non posso uscire dalla mia stanza. Può sembrare strano, ma sono letteralmente prigioniero in una strana, impenetrabile barriera che mi impedisce di uscire. Per molto tempo ho provato a infrangerla, a eluderla, aggirarla, ma non è servito ad altro che causarmi lividi e ferite. Col tempo mi sono rassegnato. Mi calano il cibo dall'alto, dove la barriera sembra non esserci. Per i miei bisogni vi lascio immaginare. Rinchiuso nella mia stanza sono costretto a vedere la loro felicità, e non esiste dolore peggiore. Fossero infelici anche loro potrebbe anche starmi bene. Mal comune mezzo gaudio, giusto? Probabilmente ne avrei anche compassione, e con la consapevolezza che il dolore è una condizione comune a tutti non mi sentirei solo.  Invece lo sono sempre stato. Li vedo tornare dalle vacanze, abbronzati ed esausti, con quella luce negli occhi di chi ha vissuto ogni momento intensamente, forse perfino troppo. Li osservo festeggiare il sedicesimo compleanno di mio fratello maggiore, e vedo la sua euforia nel scoprire cosa nascondeva il misterioso pacchetto incartato ad arte che era il suo regalo: le chiavi della sua prima auto. Li vedo, e basta. Loro mi vedono a malapena, presi dalla danza perpetua che rappresenta le loro intere esistenze, e non mi ascoltano per nulla. Ogni tanto provo a parlare loro, a dire qualcosa, anche di stupido, ma è come se parlassi un'altra lingua, come se dicessi cose che non sono in grado di concepire. Ho provato a lasciare che il tempo cambiasse le cose, sarà solo un periodo mi dicevo, passerà. Non ha cambiato nulla. Il tempo non cambia mai nulla da solo, il lento e costante processo di maturazione è tutto frutto del nostro operato. Così ho deciso di ucciderli. Questo parecchio tempo fa. Nel frattempo mi sono tenuto in forma, facendo molti giri della stanza per allenarmi. Ho programmato come e quando li avrei uccisi tutti, perfino il cane. Il quando, ormai, è stasera. Il come è presto detto: a notte fonda prenderò la rincorsa, sfruttandola per saltare oltre la barriera e uscire finalmente dalla stanza, per la prima volta in vita mia. Poi andrò nelle loro stanze e li soffocherò con un cuscino. Oppure taglierei loro la gola con un coltello. Semplice e veloce. Infine uscirò da questa casa e troverò la mia strada, e la mia felicità. Nel frattempo riposo, concedendomi un breve sonno ristoratore, in attesa che giunga la notte. Riapro gli occhi nell'oscurità avvolgente della notte. Finalmente il momento è arrivato. Mi domando che espressione avranno mentre si renderanno conto che Toby, il figlio dimenticato, si sta prendendo le loro felici vite. Saranno costretti ad accorgersi di me, a preoccuparsi, e a temermi. Mi prendo la mia rivincita, e la mia libertà. Determinato prendo la rincorsa e salto la maledetta barriera che mi ha tenuto prigioniero per tutta una vita. Attraversarla è uno shock tremendo: atterro rovinosamente su un fianco e mi rendo conto di non riuscire più a respirare. Probabilmente a causa di qualche costola fratturata, o chissà cosa. Il mio corpo si dimena nel tentativo di riprendere aria, ma non ottiene altro che sprecare ossigeno prezioso. Provo ad urlare, a dire qualcosa, ma non riesco ad emettere un suono. Morirò in silenzio come sono vissuto. Negli ultimi istanti della mia vita alcune immagini mi scorrono davanti agli occhi, sfocate come un sogno. Vedo mio fratello minore, all'epoca di pochi anni, restare a guardarmi per ore, estasiato da chissà cosa. Vedo mio padre tornare dal lavoro stanco e stressato, ma trovare comunque la forza di sorridermi. Vedo mia madre ridecorare interamente la mia stanza per renderla più accogliente. Tutta la rabbia, la frustrazione e il dolore si accomiatano imbarazzati dal mio corpo, come cocciuti messi di fronte ad un punto di vista diverso dal loro. Un senso di pace prende silenziosamente il loro posto e, nei miei ultimi istanti di vita, ho ancora la forza di sorridere. Come mio padre. Improvvisamente la luce si accende ed appare mia madre con un bicchiere di latte in mano. Evidentemente, nella felicità della sua vita perfetta, anche lei non riesce a dormire per chissà quali pensieri. Nessuno è immune al dolore, né esiste qualcuno in grado di salire abbastanza in alto per impedirgli di raggiungerlo. Tocca tutti, chi più chi meno, e mi rendo conto solo ora che, bene o male, siamo tutti sulla stessa barca.   Mi vede e spaventata corre da me, poggiando il bicchiere di latte su un mobile. Cingendomi con le mani mi solleva con estrema facilità, facendomi stupire, con l'ultimo barlume di coscienza, della sua forza inumana. Sollevandomi urla qualcosa che non riesco a cogliere, qualcosa che suona come: "Caro, anche questo pesce rosso è saltato fuori dalla sua boccia, come quello vecchio. Non credi che dovremmo metterci un coperchio?". Plunf.

sabato 31 maggio 2014

Il messaggio nella bottiglia - la fine della fine

Light painting by rafoto on flickr (licensed CC-BY-NC)



Nell'infinito protrarsi di un attimo accadono un'infinità di cose. Nei dintorni di Pechino il signor Chen abbandona il suo posto di impiegato di banca per andare a raccogliere fragole in Australia, gettando dalla nave la bella cravatta in seta scura. Sulla rotta opposta fa ritorno il signor Li, nostalgico della propria terra e della propria amata, inconsapevole che lei ormai si è sposata e ha messo su famiglia. In Florida l'inguaribile ipocondriaco signor Jones non dorme al terribile pensiero dei risultati degli esami medici che gli saranno consegnati il mattino dopo. E' convinto di avere un tumore, invece non ha nulla. Stress, dirà il medico. Come sempre.  In un'isola deserta al largo della costa orientale del Canada Jean preme il grilletto della sua vecchia rivoltella, puntata contro di me. Un gesto innocuo di per sé, quasi banale, che tuttavia è in grado di dare la morte, senza nemmeno sporcarsi le mani. Questa volta no. Il grilletto viene premuto e, come normale reazione ad un'azione così insignificante, non succede nulla. Jean insiste, prova e riprova frustrato ad ottenere il risultato di morte che dovrebbe dare premendo quel grilletto, ma niente. Infine si rassegna, lasciando cadere sul terreno sabbioso quella rivoltella ormai inutile, schiudendo le dita di una mano ormai altrettanto inutile. Mi guarda, gli occhi pieni di frustrazione e un risentimento senza pari. Io, dal canto mio, sono stranamente tranquillo, imperturbabile come un laghetto di montagna ancora sconosciuto al turismo. Non riesco a provare nulla e, dimenticando per qualche istante tutto ciò che mi circonda ed esaminando a fondo il mio animo, ne scopro il motivo: dentro il mio petto percepisco distintamente lo strano guscio del giorno prima, come fosse risorto dai propri cocci. Stavolta è più solido, più robusto, tanto che sembra resistere benissimo alla potente spinta dall'interno che lo aveva rotto ieri. Stavolta non si rompe. Con i miei sentimenti e le mie emozioni in qualche modo sigillate torno a prestare attenzione a Jean, ritto fuori dalla fossa che sarebbe dovuta essere la mia tomba, un'espressione inebetita dipinta sul volto. Sembra in trance. Lentamente schiude le labbra per farfugliare qualcosa che non riesco a decifrare, come se parlasse per emozioni che ormai non conosco più. 

"Lei è mia", scandisce poi, come a rendermi partecipe di un discorso che prima era solo con sé stesso. "Non è mai stata con nessuno, in paese. Per cui se c'è qualcuno che ha il diritto di stare con lei sono io, che fino ad oggi le sono stato vicino più di chiunque altro. Credi che non mi sia reso conto che ve la intendete alle mie spalle? Credevate forse di potermi prendere in giro così?". Tutta la rabbia e la frustrazione di Jean emerge lentamente, tanto che comincia a vibrare e tremare come un razzo al decollo, pronto a raggiungere le stelle. "Senti, non so che idea ti sei fatto, ma sappi che uccidermi non ti servirà a nulla" inizio a scandire con tono aspro e secco che stupisce perfino me stesso, "niente ti servirà. Lei non starà mai con te, devi fartene una ragione. Credi che sia stato io a portartela via? Non pensi, piuttosto, che se avrebbe anche solo voluto darti una possibilità te l'avrebbe già data da tempo? Non siete mai stati altro che amici, e mai lo sarete". La durezza delle mie parole lo colpisce come un ceffone, l'inaccettabile verità che lui non ha mai voluto guardare gli viene mostrata con violenza, senza pietà. Con altrettanta violenza reagisce lui, afferrandomi per la giacca e tirandomi fuori dalla fossa, gettandomi lontano con forza erculea. Poi si scaglia contro di me, con la furia distruttrice di una valanga, evidentemente intenzionato a compiere con le proprie mani quello che la sua inutile rivoltella non è riuscita a fare. A sangue freddo, le emozioni come paura o pietà congelate nel profondo, non mi è difficile sconfiggerlo. Lo colpisco una, due, tre volte, sporcandomi del suo sangue, marchiandomi con le mie colpe senza ipocrisia, e Jean cade a terra privo di sensi, nient'altro che guscio vuoto. Immediatamente la mia mente ritorna a ciò per cui, dopotutto, sono qui, in questa isoletta che probabilmente non conosce altro che questa storia. Il tesoro. Con febbrile trepidazione faccio ritorno nella fossa, rimuovendo gli ultimi strati di sabbia e scoprendo una cassa in legno chiaro, lunga più di un metro e chiusa da un lucchetto. Con enorme sforzo riesco a issarla fuori dalla fossa, per togliere il lucchetto e scoprire finalmente cosa contiene. Il lucchetto viene via con un colpo di pala, secco e preciso. Senza pensarci due volte, togliendo ogni solennità al momento, la apro. Quel che trovo all'interno è talmente inusuale e sconvolgente che la mia mente non intende accettarlo, concedendomi il dubbio di credere si tratti di un'allucinazione. All'interno della cassa, rannicchiato in posizione fetale, come in attesa di rinascere, c'è il misterioso gentiluomo. Senza darmi il tempo di fare o dire qualcosa di banale si fionda su di me, e in un attimo seguo Jean fra le braccia di Morfeo. E il tesoro?

Riapro gli occhi e mi ritrovo in una grande sala bianca, con tante piccole luci che fluttuano nell'aria come enormi lucciole. A pochi passi da me il gentiluomo le osserva affascinato, come un bambino che scopre il firmamento. Mi alzo e finalmente si accorge di me, notando l'espressione incredula e piena di domande che non riesco a nascondergli. "Ci troviamo all'interno del guscio, quello nel suo petto. Era questa l'ultima porta." bisbiglia con un sorriso complice e amichevole, quasi a rivelarmi un segreto. "Sa, era la prima volta che qualcuno lo rompeva. Le sue motivazioni devono essere proprio forti". "Le mie motivazioni?", domando stupito, quasi lusingato da quello che sembra un complimento. "Certamente!", risponde subito lui, con fare esperto, "vede, ognuno di noi ha tante piccole luci come queste che lo tengono in vita. Sono le nostre motivazioni. Ad esempio l'amore,  le persone care, la passione per il proprio lavoro, i propri hobby, o anche semplicemente l'amore per la vita. Tutte queste cose contribuiscono a farci restare in vita. Senza gli uomini non sono altro che polvere di stelle inanimata. Io mi nutro delle motivazioni della persone. Le sembrerà crudele, ma è la mia natura". Dovrei trovarlo assurdo, ma stranamente le sue parole mi suonano sensate e familiari, come se in cuor mio ne fossi già consapevole. "Ma lei chi, o cosa è?", domando ingenuamente, come se conoscere il mostro perché faccia meno paura, per esorcizzarlo. "Io non sono altro che un'idea, un concetto metafisico" risponde il gentiluomo, con voce lenta e profonda, quasi una cantilena, senza smettere di osservare le mie luci, il suo pasto. "In qualche modo si può dire che Philippe fu mio padre. Fu lui a concepirmi, nei suoi tanti viaggi nel mondo delle idee, e a rendermi reale, percepibile. Lui, colui che ha concepito l'idea della mia esistenza, fu il mio primo pasto in questo mondo. Lui, che mi ha combattuto fino all'ultimo, cercando qualunque modo per distruggermi. Lui, che non ce l'ha fatta. Gli esseri umani considerano tutto ciò che è materiale temporaneo, passeggero, mentre le idee, lo spirito, sono eterni, indistruttibili. La realtà è ben diversa, amico mio: le idee si affievoliscono, gli ideali si corrompono, lo spirito invecchia, ancor prima della carne. Io stesso, una semplice idea, ho bisogno di nutrirmi, tenermi in vita con ciò che tiene in vita voi umani, le vostre motivazioni. Tuttavia la mia esistenza sarà ben più breve della vostra, temo. Ah, dimenticavo: mi dispiace averla ingannata, ma non esiste alcun tesoro. Sa, non tutti hanno abbastanza motivazioni da saziarmi, da permettermi di continuare ad essere. In un piccolo paesino sperduto come quello in cui esisto le prede sono terminate in fretta, perciò ho dovuto pensare ad uno stratagemma per attirarle lì, una sorta di test. Così ho pensato ai messaggi nelle bottiglie. Ne esistono a migliaia che vagano per il vasto oceano, forse decine di migliaia, in attesa che qualcuno le trovi. Se quel qualcuno dovesse giungere fin qui come ha fatto lei, motivato e pieno di speranza, ecco la persona adatta, ecco servita la cena". 

Dopo queste sue parole rimango ammutolito, incredulo e scioccato come lo è stato Jean dalle mie. La verità, non addolcita da mezze bugie o illusioni, può essere indigesta. Per tutto questo tempo non ho fatto altro che ballare nel palmo della mano di quest'essere, ingannatore e infingardo, e l'agognata meta verso la quale ho corso tutto il tempo altro non era che sciocca illusione. Philippe non è stato altro che vittima di una creatura nata dalla sua mente, dal suo inconscio forse, e non c'è destino più beffardo.  "Cosa ne sarà di me, adesso?" domando infine con voce fioca, proveniente da una qualche parte di me che si è già arresa. "Niente di piacevole, temo", risponde il gentiluomo, con tono sinceramente dispiaciuto. "Dopo che avrò finito di nutrirmi delle sue motivazioni il suo corpo, privo di ciò che lo teneva insieme, si polverizzerà. Tornerà a fare parte del tutto, in pace. Senza più sogni né incubi. Non soffrirà, glielo prometto" conclude quasi cercando di rassicurarmi, di cullare la mia mente al pensiero di quell'immensa pace universale. Senza tuttavia riuscirci. In preda ad un'improvvisa rabbia, ho ancora la forza di alzare il capo, di stringere i pugni, di combattere. Perciò mi lancio contro il gentiluomo, nonostante l'empatia e la simpatia che riesce a suscitarmi, nonostante le sue belle parole, il suo bel portamento e il suo cappello elegante. Glielo faccio volare via, quel maledetto cappello. Metto tutta la forza e il peso del mio corpo in un unico diretto, con un unico pensiero: quello di uccidere. Il gentiluomo, quasi in un moto di pietà, si dipinge in volto un sorriso mesto, senza nemmeno tentare di evitare il colpo. Il perché mi è subito chiaro. Il mio pugno, seguito poi da tutto il corpo, gli passa attraverso senza incontrare la minima resistenza, e mi ritrovo goffamente a rotolare in avanti, l'equilibrio perduto in un profondo pozzo di odio e rabbia. "Non si ricorda?" mormora il gentiluomo, il tono addolcito come se parlasse ad un bimbo, "sono solo un'idea, un concetto. Lei non può farmi del male". 

Dopo aver sentenziato la mia incapacità di fermarlo, come ad aver messo le cose in chiaro e detto tutto quello che c'era da dire, inizia silenziosamente a nutrirsi delle tante piccole luci sparse per l'ampia sala. Da scuro e tetro com'era, inizia a diventare percettibilmente più luminoso, illuminato dalle motivazioni assimilate. Sento il mio corpo perdere vitalità, divenendo sempre più arido e polveroso. Dopo che il mio carnefice divora con gusto una motivazione particolarmente brillante, che in cuor mio percepisco essere l'amore per Veronique, la mia mano destra si polverizza completamente, staccandosi e cadendo al suolo granuloso con un tonfo cupo. L'intero braccio la segue immediatamente dopo, poi l'altro, cadendogli accanto, non più separati dal busto, ma finalmente uniti. L'essere si nutre con voracità, divenendo sempre più luminoso, tanto che non riesco più a guardarlo direttamente. Ormai, nell'ampio salone che è il guscio nel mio petto, è quasi l'unica fonte di luce, delle tante luci fluttuanti non ne restano che una minima parte. Le gambe cedono sotto il peso del mio corpo, ora che non hanno più una motivazione per resistere, e cado carponi. Il mio intero corpo è ormai secco e friabile, solo un'ultima flebile luce lo tiene insieme. Il gentiluomo ha divorato tutte le altre. Rimane lei, flebile ma ancora pulsante di vita, e col mio ultimo pensiero mi domando di cosa possa trattarsi. E' forse il ricordo di mia madre? Oppure l'affetto per Buck? Forse il karate. L'essere, diventato ormai pura luce, rimane qualche istante a fissarla in rispettoso silenzio, come si potrebbe guardare il dessert che termina un lauto e importante pasto. Poi mi porge un ultimo gesto di saluto, sollevando elegantemente il cappello, e con calma divora la mia ultima motivazione. Lentamente ma inesorabilmente il mio corpo si polverizza, disperdendosi nel vuoto che permea l'interno del guscio. La mia mente sbriciolata non ha più alcun pensiero, il mio cuore in polvere non mi mostra alcuna immagine di un volto amato, il mio corpo non sente alcun dolore. Questa è la pace di cui parlava il gentiluomo. I miei occhi, prima di dissolversi, scorgono un'ultima, straordinaria immagine, probabilmente frutto di un'allucinazione: dall'essere iniziano a fuoriuscire dei lampi di luce, incrinature nella sua essenza eterea. Perde molta della luminosità acquisita dalle mie motivazioni, e scorgo perfino molte di esse fuoriuscire dal suo corpo e tornare a fluttuare placidamente nella sala, come nulla fosse accaduto. Il mio corpo ritrova solidità e forma, e senza che me ne accorga mi ritrovo di nuovo in piedi, ogni parte al suo giusto posto, perfettamente integro. Il gentiluomo sorride mesto, sconfitto. "E' qualcosa di incredibile", inizia lento, la voce flebile come le ultime parole di un anziano morente. "La sua ultima motivazione, l'ultima speranza che la teneva in vita, era una strana formula. Non una formula qualsiasi, ma che sostiene un fenomeno ben preciso, con tanta forza che non posso zittirla. La formula che lei ha conservato con tanta cura nella sua memoria, nella quale ha tanto sperato, e che le ha dato una motivazione in più per vivere, per credere, postula la mia non esistenza. Che io non possa esistere. Ora che quell'idea è dentro di me come posso esistere, se io stesso ormai sono convinto del contrario? Io che mi nutro di ogni idea che mantiene in vita oggi ne ho assorbito una che nega la mia, come una cicuta. Ha vinto lei", conclude con sorriso complice, senza rancore. Tanto che non riesco a portargliene nemmeno io. Senza alcun intento di schernirlo, faccio il gesto di togliermi un cappello immaginario in gesto di estremo saluto. Poi il gentiluomo si dissolve, rilasciando tutte le innumerevoli luci che mi aveva sottratto, ed alcune altre più piccole, rimasugli di quelle che aveva assorbito dalle precedenti prede.  Perdo i sensi, forse per l'ultima volta, col sorriso sulle labbra.


Mi risveglio
con il viso rivolto al cielo,  come a cercare di  orientarmi in un mondo che non riconosco più. Guardandomi intorno non vedo traccia di Jean, e sulla spiaggia il gommone col quale siamo giunti sull'isola è sparito. Né scorgo poco lontano la sagoma della barca. Sono solo. Frugandomi in tasca trovo solo il maledetto messaggio nella bottiglia, scritto dal gentiluomo. Chissà, forse lo spedisco anche io un messaggio nella bottiglia. Nella capanna di fortuna nella radura trovo una bottiglia di plastica che fa il caso mio, così ci infilo il messaggio, la sigillo meglio che posso e la lancio in mare, speranzoso. Non sono mai stato tanto motivato a vivere. Mi siedo sul limitare del bagnasciuga, fissando l'orizzonte in attesa che qualche nave ne interrompa la morbida linea. Qualcuno arriverà.


Fine

venerdì 23 maggio 2014

Il messaggio nella bottiglia - l'inizio della fine


Photo by Kathleen Logan

Il sole, sorgendo, sgrana gli occhi stupito nel trovarci uniti al suo arrivo, come un fatto imprevisto nell'immenso ordine cosmico. Contro ogni legge fisica le nostre vite hanno iniziato ad orbitare l'una intorno all'altra, indissolubilmente legate in una danza perpetua. Secondo i patti Jean non sarebbe arrivato prima delle undici, in modo da partire quando tutte le altre navi sarebbero già salpate, così da non dare nell'occhio. "Rimani un indesiderato", disse due sera fa, con tono grave, "se qualcuno dovesse vederti sarebbe un gran casino. Non deve assolutamente succedere". Così, essendoci svegliati ben prima delle undici, passiamo diverse ore come sospesi in una bolla, essendo al contempo sia troppo tardi che troppo presto per fare qualunque cosa. Troppo tardi per prepararsi e premunirsi a tutto ciò che posso incontrare nel mio, sebbene breve, pericoloso viaggio. Troppo presto per pensare al dopo. Possiamo solo aspettare, e pregare che questa bolla scoppi presto, con lo scampanellio rivelatore dell'arrivo di Jean. L'unica precauzione che non posso fare a meno di prendere è trascrivere l'incomprensibile formula sottolineata ed evidenziata dell'ultima pagina di Philippe, come una sorta di arma segreta contro l'ignoto. Philippe evidentemente credeva nella sua importanza, e ci credo anche io. Devo crederci. Senza questa flebile luce di speranza, non avrei la forza di proseguire per la mia strada, rassegnandomi ad un'esistenza più sicura ma monotona. Come la mia vita precedente, che ormai mi spaventa a tal punto che, per sfuggirle, ho messo un oceano di distanza fra me e lei, e una buona metà del globo terracqueo. Un senso di timore perfino superiore a quello che provo per l'uomo che molto presto tenterà di prendersi la mia vita, senza che io abbia un modo preciso di impedirglielo. Solo una piccola speranza. Solo una piccola luce rischiara i miei passi, quel tanto che basta da non farmi percepire il freddo della notte, né il gelo della paura, né il vuoto baratro nel quale rischio di cadere.  Le ore trascorrono silenziosamente, senza lasciare traccia di sé nell'infinita spiaggia del tempo, come un'amante che, dopo una notte di passione, scivola furtivamente fuori dalla porta, fuori dalla tua vita. Finalmente, alle undici e mezza, l'improvviso trillo del campanello ci sussurra che il momento è arrivato, che Jean è qui, e non c'è più tempo per nulla. Ci salutiamo con leggerezza, scambiandoci un delicato bacio, come se stessi semplicemente andando in ufficio. Prima di andare mi porge un vecchio zainetto, logoro ma ricco di storie da raccontare, contenente leccornie e viveri vari preparati amorosamente da lei nelle vuote ore d'attesa. "Non credo che riuscirai a tornare prima di domani", mormora come a giustificarsi, "dovrai pur mangiare qualcosa, no?" "Grazie di cuore, davvero. Tornerò presto, promesso", rispondo consegnandole ogni parola inespressa con un ultimo bacio. L'ultimo di oggi, perlomeno. Jean, con la sua solita espressione sorniona di chi ha capito tutto, mi aspetta nel paradisiaco giardino, con un solo piccolo bagaglio. "Tutto quello che ci serve è già sulla barca", dice come a rispondere ad una domanda che ho solo pensato. "Bando alle smancerie, sbrighiamoci o ci fregheranno il tesoro da sotto il naso". Un ultimo cenno di saluto e siamo già in cammino verso il porto, attraversando la vacuità del paese accarezzato finalmente da un sole giovane e generoso. I nostri passi rimbombano per le vie deserte, creando in me l'illusoria convinzione che non esista più nessuno al mondo. Jean cammina al mio fianco, immerso in chissà quali pensieri, ragionamenti e paure. Riflesso nei suoi occhi mi sembra di scorgere il mare e il viaggio che tra poco intraprenderemo, come specchio di quel che succede nella sua mente. Finalmente giungiamo al porto, trovandolo ancor più deserto e abbandonato del paese, e mi stupisco di come qualche sera potesse essere così poco rassicurante e pericoloso. Alla luce del giorno, così abbandonato, mi suscita solamente una strana malinconia, come al vedere la casa dove si è trascorsa l'infanzia abbandonata e in sfacelo, i ricordi a marcire nella polvere. Con aria compiaciuta mi conduce fino alla sua barca, un peschereccio di una ventina di metri grigio e lurido, ma che ai suoi occhi sembra avere la maestosità del Titanic. "Benvenuto nel mio umile vascello", dice Jean accompagnando le parole ad un solenne gesto del braccio, invitandomi a salire. Il viaggio è semplicemente una noia totale. Circa tre ore di navigazione nella calma piatta dell'oceano, trascorse a parlare del più e del meno e sorseggiando lentamente del whiskey che Jean si è premunito di portare in due diverse fiaschette, come se senza non saremmo potuti partire. Quando scorgiamo finalmente la scura sagoma dell'isola, un isolotto di circa tre chilometri di lunghezza  i cui soli abitanti sembrano le alte e antiche conifere, il mio cuore compie un'acrobatica capriola nel petto. Ora è lì, posso vederla, posso toccarla, posso quasi sentire l'odore fresco dei pini giungere in una brezza sino a me. Come ultimo gesto prima di scendere a terra, ricercando noncuranza, mangio due panini alla pancetta e sottaceti preparati da Veronique. Infine Jean butta l'ancora ad una ventina di metri dalla costa, che poi percorriamo in un piccolo gommone a motore dalla lentezza snervante. "Ho portato delle pale e delle corde", racconta Jean, euforico, "come ogni caccia al tesoro che si rispetti dovremo scavare, no?". Annuisco divertito, coinvolto dall'entusiasmo dell'uomo col quale condivido questa strana avventura. Una volta giunti a terra decidiamo subito di esplorare il piccolo isolotto alla ricerca del fantomatico uomo che ha scritto il messaggio nella bottiglia. Dopo aver girovagato per il bosco, per le spiagge, per le basse alture rocciose dell'isola, scopriamo una piccola radura al centro del bosco, dove incontriamo di nuovo i raggi del sole prima oscurati dagli alti alberi. Al suo interno troviamo una piccola costruzione di fortuna, costruita con vari tronchi, rami e fronde degli alberi dell'isola. Sparsi lì intorno vari utensili, delle corde, una radio rotta e un diario reso ormai illeggibile dalla pioggia. Ma non è quello che ci interessa, non più dopo che i nostri occhi finalmente lo vedono, così netto e definito da non poter far finta di non averlo notato. Poco lontano dalla capanna di fortuna troviamo il cadavere di un uomo, gonfio e ormai piuttosto decomposto. Ci guardiamo per un lungo istante, attoniti, senza riuscire a dire nulla. Infine Jean, dimostrandosi poco debole di stomaco, gli si avvicina, notando un particolare che ad una prima occhiata non avevamo scorto, e da una tasca della giacca del morto estrae un foglio che pare sia stato risparmiato dalle intemperie. Con cautela, come se inconsciamente temessi che il cadavere riprenda viva e ci attacchi, mi avvicino a Jean, per scoprire insieme a lui cosa riveli quel foglio. Prima che potessi trarre una conclusione, la voce di Jean erompe entusiasta: "è una mappa! Una maledetta mappa!", grida euforico. "Il tesoro è seppellito ai margini della radura, proprio da quella parte", urla indicando in direzione di un punto poco lontano da noi. Colti dall'entusiasmo, o forse da bramosia, prendiamo le pale e le corde e corriamo a scavare, dimenticando il cadavere e tutto il resto. Scaviamo per diverso tempo, non so dire se mezz'ora o più, quando finalmente la mia pala impatta contro un corpo solido un paio di centimetri sotto il fondo della fossa profonda circa un metro e mezzo. Con la coda dell'occhio scorgo Jean che si affretta ad uscire, come se avessero buttato una bomba a mano nella fossa. Ma non è lui ad essere in pericolo. Voltandomi verso di lui, in cerca di spiegazioni, mi rendo conto di non averne bisogno: rivolta verso di me c'è la lucida e fredda canna di una pistola, impugnata da un irriconoscibile Jean.

mercoledì 7 maggio 2014

Il messaggio nella bottiglia - undicesima parte





L'alba dell'ultimo giorno prima della partenza mi viene incontro a mezzogiorno, quando i miei occhi spenti si schiudono nella penombra della stanza. Adesso che posso contare le ore che rimangono percepisco il mio corpo e il mio animo come un guscio vuoto, privo di emozioni e pensieri. Potrebbe sembrare la classica calma prima della tempesta, ma sento che è qualcosa di più complesso, e al contempo basilare e naturale: forse è un primo accenno di ciò che avverrà presto. La morte, il nulla, scomparire. La percepisco echeggiarmi dentro, non spaventosa, dolorosa o fredda. Mi appare piuttosto come una malinconica e immobile assenza, come il binario della stazione dopo che il treno della propria amata è sparito all'orizzonte. Rimango qualche istante coricato a fissare, senza guardarlo, il soffitto della stanza, scavando e ricercando dentro di me la luce della felicità provata appena ieri, senza trovarla. Il guscio duro e cavo all'interno del mio cuore ostacola la mia ricerca, come se i sentimenti e le emozioni del mondo dei vivi fossero ormai precluse a me che, in parte, non vi appartengo più. Sono in bilico tra i due mondi, e ho assolutamente bisogno che qualcosa, dal mondo dei vivi, mi trascini con forza dall'altra parte. Un'ancora di salvezza. Improvvisamente sento il rigido guscio interiore incrinarsi sotto la spinta di qualcosa di immensamente potente che spinge dall'interno, come un pulcino che becca con forza il guscio per poter, finalmente, venire alla luce, e oltrepassare lo strano limbo tra i due mondi nel quale mi trovo anche io. Finalmente erompe, sbriciolando il guscio che stringeva il mio animo. Nella mia mente affiora il viso di Veronique, il suo sorriso, la sua risata, rompendo le catene del mio amore e sciogliendo il gelo che rendeva sterile e arido il mio cuore. Al suo seguito, come una lunga catena di persone che si tengono per mano, si susseguono una miriade di immagini e colori fantasmagorici, ricordi della mia gioventù, il volto di amici perduti col tempo, il mio maestro. L'altalena dove giocavo da piccolo, innumerevoli pomeriggi d'estate senza una nuvola a creare pensieri. Tante piccole luci che, viste da più lontano, ne formano una più grande e potente: la vita. Nuova speranza e vitalità pervade ogni cellula del mio corpo, spargendosi come spore di un soffione dalla cavità toracica dove prima risiedeva quel misterioso guscio. Incredulo ed euforico, mi alzo dal letto e mi cambio in fretta, indossando abiti puliti che odorano lievemente di sapone casereccio. Mi dirigo in cucina quasi correndo, determinato a cavare qualsiasi informazione utile dal diario di Philippe, anche a costo di usare la forza. Che gli piaccia o meno, sopravvivrò. Arrivato in cucina e preso il diario, tuttavia, il pensiero di Buck fuori da due giorni mi attraversa la mente come un fulmine, per cui decido di andare da lui. Giunto alla porta di casa la trovo aperta. Veronique, uscendo stamane, non può certo aver dimenticato la porta aperta. Tuttavia lo è, una verità così evidente e pesante da farmi cedere le gambe. Voltandomi lentamente scorgo, con la coda dell'occhio, il gentiluomo dignitosamente ritto in salotto. Nonostante ci siano un comodo divano e una ancor più comoda poltrona lui rimane in piedi, serio e ligio al dovere come una guardia reale. Per la prima volta decido di rivolgergli parola. "E' venuto a prendermi? E' già arrivato il momento, ora che ha aperto l'ultima porta?". Lui, stupito dalla mia domanda a bruciapelo, sgrana gli occhi come colpito da una secchiata di acqua fresca. "No, no, non è ancora giunto il momento. Rimane ancora una porta", risponde con un sorriso affabile, come un passante gentile a cui si chiede indicazioni. Le sue parole, tuttavia, non fanno altro che creare altri dilemmi, non risolvono nulla. Tuttavia mi concedono altro tempo, ed è quello che conta. Saluto il gentiluomo con un gesto della mano ed esco fuori, diario alla mano. Trascorro l'intera mattinata con Buck, cosa che sembra renderlo felice. Deve aver sentito la mia mancanza, e non posso fare a meno di sentirmi un po' in colpa. Ogni tanto leggo le pagine del diario, ormai mancano solo poche pagine per finirlo e non ho ancora trovato qualche informazione utile. Nonostante tutto, la speranza che pervade ogni fibra del mio corpo non mi fa preoccupare granché. Prima o poi troverò qualcosa, poco ma sicuro. Per pranzo Veronique fa una breve comparsata, mangiamo insieme delle cotolette di pollo con insalata, e parliamo del più e del meno. Pare che entrambi vogliamo vivere questa giornata in maniera più spensierata possibile. Mi confida che Jean è cotto di lei da quando erano ragazzini, lo ha sempre saputo, come se ne sono accorti da tempo in paese. L'unico che crede che sia il suo più grande segreto è lo stesso Jean, come se non si rendesse conto di quanto sia evidente. Non si è mai dichiarato, forse per consapevolezza di essere rifiutato, e a Veronique sta bene così, non gli ha mai dato speranze dopotutto. Non posso fare a meno di sentirmi infastidito, e al contempo rassicurato dal fatto che lei non ama quell'uomo, né nessun altro. Finito di mangiare torna al suo negozio, cancellando ogni malinconia dal nostro saluto sfiorandomi dolcemente le labbra con le sue, morbide e delicate. Quel singolo bacio mi ancora maggiormente al mondo dei vivi, trasportandomi alle più alte vette di euforia e felicità. Voglio vivere, vivere con lei, vivere per lei e grazie a lei. Ritorno, con la mente immersa in pensieri di un futuro felice, sul diario di Philippe, sedendomi sul prato vicino a Buck. Dopo un lauto pranzo a base di terribile cibo per cani è sonnacchioso e indolente come un adolescente dopo la scuola. Finalmente arrivo all'ultima pagina, dopo pagine e pagine di formule cancellate con decisi tratti di biro e parole frammentarie e sconnesse. Vi trovo una formula scritta in bella calligrafia, sottolineata più volte e incorniciata con una greca molto semplice, come quelle che facevo da bambino. Sembra essere importante, così la imprimo nella memoria come una fotografia, cercando in ogni modo di mantenerla integra nella mia mente. E' una formula complessa e formata da segni e caratteri a me sconosciuti, ma sento fin nel profondo del cuore che è di vitale importanza, e questo basta a stamparla nella mia memoria in maniera definitiva. Ora che ho finalmente finito di leggere il diario, posso ritenere conclusa la mia preparazione, così decido di passare le ultime ore di questo ormai soleggiato pomeriggio a giocare con Buck, spensierato. Mi sembra di essere tornato bambino, in quegli infiniti pomeriggi estivi senza nuvole né pensieri. Nessun pensiero. L'uomo che mi ucciderà è nel salotto di casa, io volo alto nei cieli inesplorati della felicità. Intorno alle sette Veronique fa ritorno a casa, e mi prepara una cena speciale, sostanziosa e deliziosa. Dopo cena, come se ci attraesse inevitabilmente a sé, finiamo nel suo letto. Un letto grande e morbido, forse fin troppo comodo per non addormentarcisi dolcemente, ma con lei al mio fianco è impossibile non rimanere sveglio. Iniziamo a baciarci, prima timidamente e esitanti (trovo che sia quasi miracoloso che alla nostra età ormai matura si possa ancora essere timidi nell'intimità), poi con più passione, ed euforia. I nostri corpi si avvicinano e si stringono, quasi fossero due metà di una stessa mela che vogliono tornare un'unica cosa. Era da moltissimo tempo che non entravo in intimità con una persona, e la mia paura più grande era essere goffo e impacciato, sarebbe stata una vergogna grandissima. Invece mi viene tutto spontaneo, naturale, come se fossi nato per baciarla, e amarla. L'euforia del momento sta per trascinarci ad un'intimità più profonda e completa, lei, sorridendo, mi ferma. "Dopo che sarai tornato", sussurra dolcemente, baciandomi ancora. "Così hai un motivo in più per tornare, no?" conclude sorridendo, illuminandomi ancora con la bellezza del suo sorriso. Così ci addormentiamo, felici e finalmente uniti, noncuranti del pericolo che dovrò affrontare domani, noncuranti di tutto. L'universo si riduce in questo letto, e nulla al di fuori di esso esiste più. Almeno per stanotte. 

sabato 19 aprile 2014

Il messaggio nella bottiglia - decima parte




Le ore passate a leggere e rileggere il diario di Philippe trascorrono silenziosamente e senza posa, senza lasciare un particolare ricordo di sé alle spalle, come giovani amici nei cui occhi si può scorgere qualche sfocata immagine di un futuro lontano ma che non riescono a ricordare cosa hanno mangiato per pranzo. Le prime pagine del diario non mi danno nessuna informazione nuova, devo riconoscere che il racconto del vecchio Jacques, in quel infimo bar del porto, era più preciso di quanto potesse sembrare, quasi l'avesse vissuto in prima persona. Ogni tanto osservo furtivamente dalla finestra il gentiluomo nel grande giardino di Veronique, non sorprendendolo mai intento a fare qualcosa, bensì aspettando con compostezza e dignità il momento in cui, si suppone, verrà a prendersi la mia vita. Inspiegabilmente, nonostante la sorda minaccia della sua costante presenza, non riesco a provarne timore, né odio, né rabbia. Solamente una sorta di calma accettazione, come se la sua presenza qui sia del tutto naturale. Nel suo racconto Jacques accennava a qualcosa del genere, deve trattarsi di una qualche sorta di abilità del misterioso gentiluomo. Verso l'ora di pranzo Veronique fa una breve comparsata per pranzare insieme, come vip attempati che cercano in tutti i modi di non farsi dimenticare, e con mio grande sollievo porta anche del cibo per cani per Buck. Prepara un pasto veloce, dei panini imbottiti con carne affumicata, mostarda e pomodori che gustiamo con calma, parlando del più e del meno. "Hai scoperto qualcosa di interessante nel diario di zio Phil?" domanda poi lei pacatamente, come se parlasse del tempo. "Ancora niente che non sapessimo già", rispondo io pragmatico, cercando di far sprofondare nelle profondità del mio animo la frustrazione e la delusione di quella mattinata di infruttuosa ricerca. "Non ti arrendere", proclama lei sicura, infondendomi forza e coraggio, "non hai modo di sapere cosa stai cercando, ma vedrai che quando lo troverai non potrai fare a meno di riconoscere che è proprio ciò che cercavi. Continua a leggere, sento che è la cosa giusta da fare, forse l'unica che abbia davvero senso." Rincuorato dalle sue parole, finisco di mangiare il panino non pensando ad altro che a quel quaderno e alle sue risposte, così intensamente che sento già le sue rigide pagine scorrermi fra le dita. "E' ora che torni in negozio" mormora lei quasi malinconicamente, come ad esprimere quanto vorrebbe essere al mio fianco anziché dietro ad un bancone, nell'attesa di qualche cliente. Mi sono sempre domandato cosa facciano i commessi quando non ci sono clienti in negozio, quasi fosse uno dei più grandi misteri del cosmo. A volte me li immagino sospesi in una sorta di limbo, come se prendano vita solo quando qualcuno li osserva.  Sono quasi tentato di domandarglielo e risolvere così un dubbio che probabilmente attanaglia solo me, tuttavia mi limito a ricambiarle un delicato bacio sulla guancia, piacevole come una brezza estiva. Ha un modo particolare di baciarmi la guancia, sebbene sia un gesto molto casto e pudico, è al contempo più intimo e piacevole di qualunque bacio sulle labbra che abbia mai ricevuto. Non che ne abbia ricevuti molti in vita mia, per inteso. Il resto del pomeriggio trascorre anch'esso placidamente, senza che riesca a scoprire qualcosa di importante dal diario di Philippe. Qualunque cosa sia Veronique ha detto che l'avrei riconosciuta quando l'avrei trovata, come il vero amore, per cui non posso fare altro che portare pazienza. Nell'intimità della mia mente faccio un patto solenne con me stesso, ossia di smettere di sbirciare il gentiluomo dalla finestra, per non farla diventare un'ossessione. Dopotutto sarà lui a venire da me quando sarà il momento, quando tutta questa assurda storia volgerà al termine, prima di allora non ha senso preoccuparmene. All'imbrunire, quando l'ombra della grande quercia che si staglia solenne ma rassicurante al centro del giardino diventa molto più alta della quercia stessa, come fama che ingigantisce personaggi altrimenti mediocri, il rumore metallico della chiave che gira nella serratura mi annuncia che Veronique è di finalmente tornata. Non posso fare a meno di pensare che quella rigida serratura, che ora si dimostra così sicura e precisa, perderà ogni sicurezza e robustezza dinnanzi al gentiluomo, come artista tanto mediocre quanto borioso perisce sotto le parole di critici senza scrupoli.  Per quanto possa sembrare rassicurante, non potrà impedirgli di entrare. Dopo aver aperto la porta, Veronique entra in casa seguita da una figura più imponente, che sul momento non riesco a identificare, come fosse attorniata da una fitta nebbia. "Eccoci arrivati" esclama Veronique con voce entusiasta, quasi urlando, sempre illuminata da un meraviglioso sorriso del quale non so se ingelosirmi o esserne felice, non capendo se sia per lui o per me. L'uomo alle sue spalle avanza con un sorriso sornione tendendomi la mano e non riesco a fare a meno di squadrarlo dalla testa ai piedi, come a soppesarne la qualità. E' un uomo dal fisico robusto e al contempo asciutto, piuttosto alto, all'apparenza della stessa età di lei. Indossa un giaccone di cuoio marrone dall'aria piuttosto logora ma affascinante, con sotto una spessa camicia a quadri. Scendendo con lo sguardo scopro dei vecchi blue jeans scoloriti, diversi dai miei dal fatto che trasmettono la netta impressione che siano scoloriti davvero per l'usura, non mi sembra il tipo da comprarli già scoloriti. Infine degli scarponcini marroni in cuoio, anch'essi piuttosto usurati. Soffermandomi sul suo viso incontro i suoi occhi, grigi e freddi come il mare, e più in basso una barba incolta, che tuttavia lo rende più interessante. L'uomo mi stringe amichevolmente la mano, presentandosi come Jean. "E' il mio vecchio amico di cui ti parlavo", mormora sorridente Veronique, forse a mettere le cose in chiaro. "Molto piacere", esclama Jean con fare sornione, stringendomi la mano con forza che cerco in ogni modo di eguagliare, senza riuscirci. Ci accomodiamo sul divano in attesa che sia pronta la cena, sorseggiando due birre di importazione, quel tipo di birre che si tengono da parte per indefinite occasioni speciali che forse non giungeranno mai. "Quindi vai a caccia di tesori, vecchio mio?", domanda lui con fare amichevole, tuttavia quasi invadente. La sua domanda mi colpisce come un secchio di acqua gelata: Veronique ha condiviso con questo tizio l'intimità del nostro tacito segreto, stracciando come un poster di una band che ormai non si apprezza più la magia che ci univa. Pochi attimi di silenzio bastano per far intuire al suo attento amico la mia delusione, che tenta subito di rimediare dicendo "non te la prendere se mi ha detto tutta la verità, una volta arrivati sull'isola e cercato il tesoro mi sarebbe sorto qualche sospetto, non credi? Tanto valeva dirmelo subito. Inoltre ci conosciamo da una vita, non abbiamo segreti l'uno per l'altra." Seppur infastidito dall'ultima frase non posso fare a meno di dargli ragione. Veronique nel frattempo ci chiama per la cena con un allegro scampanellio, dove continuiamo il discorso. "Tra due giorni la tempesta sarà sparita del tutto, secondo le previsioni. In tarda mattinata, quando tutte le altre barche saranno salpate e ci sarà meno trambusto, salperemo anche noi. Penserò io a tutto, non devi preoccuparti di nulla, solo di portare il culo sulla barca, credi di esserne capace?" conclude guardandomi con un sorriso beffardo che mi lascia totalmente senza parole. Veronique sembra accorgersene e interviene subito in mio soccorso, dicendo di non prendermela, è il suo modo di far capire che gli sono simpatico. Il resto della serata trascorre piacevolmente, forse con qualche birra di troppo, e si conclude con la solenne promessa di uno sbronzo Jean di portarmi su quell'isola, costi quel che costi. Divertito da quello che, nonostante l'apparenza iniziale, si è rivelato una buon'anima, sto al gioco e prometto solennemente di dargli il 10% del tesoro, nel caso in cui lo troviamo. Infine Jean si accommiata leggermente barcollando, Veronique invece, visibilmente sollevata dall'uscita di scena del suo molesto ospite, ne approfitta per andare subito a dormire. Rimango solo con i miei pensieri, incapace di realizzare che tra due giorni esatti, a quest'ora, sarà ormai tutto finito. Sprofondo lentamente nel sonno, con l'immagine della nostra nave che salpa verso un mare tempestoso e nebbioso.

martedì 8 aprile 2014

Il messaggio nella bottiglia - nona parte



Vengo svegliato dal delicato tintinnio di Veronique che prepara la colazione, accompagnato dal delizioso profumo di pancake e sciroppo, come se tenendosi per mano si fossero fatti la promessa solenne di giungere fino al mio letto, insieme. Guardando il display della vecchia sveglia sul comodino scopro che sono solo le sette e ventitre minuti. Il fatto che mi sia svegliato ad un'ora così precisa e non, ad esempio, alle otto in punto, mi fa intuire che non sia un caso e che sia giusto che mi alzi proprio in questo momento. Prima, tuttavia, mi concedo qualche secondo per guardarmi intorno nella stanza in penombra, immersa in una fantasmagorica luce bluastra che conferisce l'impressione di trovarsi sul fondo dell'oceano. Consacrando questi brevi istanti al dolce far nulla, scopro di essere felice. Probabilmente finora ho avuto troppe cose su cui concentrarmi e riflettere per rendermene conto, ma sono felice, euforico, vivo. Finalmente vivo, come quando da ragazzino sentivo fin nel profondo del cuore che l'estate era vicina, e un'euforia simile ad un urlo di gioia fuoriusciva in risposta a quella consapevolezza. Una felicità semplice, quasi ingenua oserei definire, che non ha bisogno di soldi, successo o effimera gloria per poter sussistere. Sono felice, ed è come per due amanti ritrovarsi finalmente dopo aver percorso infinite strade solitarie e grigie per cercarsi. Nell'intimità segreta di questa stanza immersa nell'oceano una lacrima percorre il mio volto, nel suo piccolo travolgendo ogni cosa che incontra. Essere felice è già una buona cosa, ma scoprire di essere felice è un fatto che scuote le fondamenta dell'essere. Dopo aver lasciato che quell'unica lacrima finisse il suo viaggio decido finalmente di alzarmi. Ovunque andasse, qualunque cosa cercasse, spero che il viaggio di quella lacrima sia finito in gloria. Vestendomi alla bell'è meglio indosso un paio di jeans scoloriti e una maglietta a tinta unita nera, poi, seguendo l'aroma dei pancake, arrivo fino in cucina. Sorrido al pensiero che quei jeans, due anni prima, me li avevano venduti già scoloriti, senza concedere tempo al tempo stesso di scolorirli in maniera naturale. Probabilmente sarebbero rimasti come nuovi, visto la vita tranquilla e monotona che ho vissuto indossandoli. Nemmeno il mio viso è invecchiato, dopotutto. In cucina incontro Veronique intenta a lasciare un biglietto sul tavolo, molto probabilmente perché io lo leggessi più tardi. Quando mi vede sussulta lievemente per lo spavento, evidentemente non si aspettava che io mi svegliassi così presto, e con noncuranza accartoccia il biglietto e lo butta nella spazzatura, come vergognandosi di averlo scritto. "Buongiorno", dice con un sorriso entusiasta, quasi euforico, una frase così banale che pronunciata da lei, in quel modo, suona come una promessa. La promessa che sarà davvero una buona giornata, e personalmente non posso fare a meno di crederci. Mi fa cenno di accomodarmi sulla tavola che ha apparecchiato per me e non mi faccio certo pregare. Assaporo con calma i pancake che mi ha messo sul piatto, completandoli con della marmellata e dello sciroppo d'acero, sorseggiando ogni tanto dell'ottima spremuta d'arancia. Il loro profumo non smentisce la loro fama, anzi, per certi versi era davvero riduttivo: sono davvero squisiti. "Sai", inizia lentamente, come se volesse gustare a fondo l'importanza di ciò che sta per dire, "pare che finalmente la tempesta stia per finire. Il giornale di stamattina dice che entro due o tre giorni le autorità costiere ripristineranno totalmente il trasporto marittimo. Molte navi di ogni tipo e dimensione ripartiranno tutte insieme quel giorno, come corridori allo sparo dello starter, e ti prometto che su una di quelle navi ci sarai anche tu" conclude con un sorriso così splendido da squarciare le nuvole infuriate. Non riesco a dire qualcosa di altrettanto importante, così esprimo goffamente la mia riconoscenza e felicità, sperando che anche solo un pallido riflesso di essa riesca a giungere alla sua coscienza. Improvvisamente, uno strano panico mi colpisce come un gelido ceffone: non sono pronto. Pronto ad affrontare l'incognita minaccia del gentiluomo, pronto a realizzare che il tesoro, finalmente, è così vicino che se allungo una mano ne posso sentire il calore. Pronto anche solo ad andare sull'isola, non ho preparato niente. "Come farò ad arrivare sull'isola?" domando infine, sperando di non guastare la gratitudine, "sai meglio di me che nessuno qui, a parte te, vuole avere a che fare con me. Come riuscirò ad esse su una di quelle navi?" Anziché rabbuiarsi il suo sorriso si accende di più, come un alunno orgoglioso che risponde correttamente alla domanda trabocchetto della professoressa. "Credi che non ci abbia pensato?", risponde senza smettere di sorridere, "ho già in mente la soluzione, non ti preoccupare. Un mio vecchio amico è un pescatore, come molti altri sull'isola. Siamo amici praticamente da sempre, vedrai che non si rifiuterà di aiutarti. Fidati di me" concluse infine, come a debellare ogni mio ulteriore dubbio. Abbagliato, non riesco a dire altro che un timido "grazie" che esce dalla mia bocca spento e smussato, perdendo la grandezza e la completezza che aveva quando era dentro di me. La sua unica risposta è un sorriso sincero, affettuoso, come non mi sono mai stati rivolti in vita mia. "E' tardissimo!" esclama lei riprendendo contatto col mondo reale, fatto di lavoro e sacrifici, "devo andare ad aprire il negozio, altrimenti in paese inizieranno a mangiare la foglia. Sono sospettosi come quelle anziane che ti fissano severe dalle finestre delle case, come se potessero tenere sotto controllo tutto quello che succede in questo folle mondo. Immagino non serve che ti dica di non uscire di casa, no? Fai come fossi a casa tua, ci sono tanti libri da leggere, il televisore funziona bene e ci sono parecchie riviste, se ti interessano. Soprattutto, credo sia importante che tu legga questo", raccomanda seria, dandomi un vecchio quaderno dalla copertina rigida e spessa, di ottima fattura. Rimango un istante a guardarla confuso e lei risponde subito alla mia muta domanda prima che potessi porla: "è il diario di mio zio Phil. Sai, di quello che successe in quel periodo. La polizia ce l'ha restituito qualche anno dopo, quando hanno chiuso le indagini e archiviato il caso, dandolo per morto. Potresti scoprire qualcosa che non sappiamo, chissà" aggiunse facendomi l'occhiolino. Con il quaderno in mano la accompagno alla porta, e prima di andarsene mi bacia delicatamente sulla guancia, prendendo una lieve scossa. "Scusa, deve essere la tensione" mormoro imbarazzato. Lei si allontana ridacchiando, allegra come un giardino ai primordi del mondo, quando tutto era ancora giovane, e innocente. Un brivido mi pervade la schiena quando uscendo passa a fianco del gentiluomo, senza vederlo. Lui, pur non visto, non può fare a meno che togliersi il cappello in gesto di elegante saluto, poi rivolge lo stesso saluto a me. Quando Veronique scompare dal mio campo visivo decido di entrare, se tra pochi giorni la tempesta finirà dovrò farmi trovare pronto, e scoprire tutto quello che questo vecchio quaderno ha da raccontare. 

giovedì 27 marzo 2014

Il messaggio nella bottiglia- ottava parte

Fonte: http://www.fantastictraveling.com/15-beautiful-japanese-garden-photos/

Mi conduce fino ad una villetta in periferia abbracciata dolcemente da un vasto giardino lussureggiante: entrandoci e spaziando con lo sguardo vedo innumerevoli fiori di varietà che non avevo mai visto, alti alberi nodosi dall'ombra accogliente e un piccolo laghetto popolato da ninfee. Appesa ad un grosso ramo dondola lievemente una grande ruota, facendomi sentire nostalgia della mia infanzia. Ogni cosa conferma il buon gusto della bellissima ragazza che, immagino, l'abbia ideato e curato nei minimi particolari. Questo piccolo eden sembra essere frutto di un'intelligenza superiore, un miscuglio di innumerevoli piante, fiori ed alberi completamente differenti che tuttavia, nell'insieme, formano un'immagine molto coerente. Nella mente mi immagino lei in un caldo pomeriggio estivo, a leggere un libro sotto le accoglienti fronde della grossa quercia, o sul vecchio dondolo bianco sulla veranda al tramonto. Provo una lieve sensazione di piacevole malinconia, quella che si prova al termine di una giornata davvero speciale e intensa. Prima di entrare in casa la ragazza mi dice che volendo posso lasciar libero Buck di farsi un giretto in giardino, così lo sguinzaglio per poi seguirla dentro. "Scusa il disordine", esordisce banalmente lei, "ti posso offrire del the?". Non sono mai stato un amante del the, preferendo di gran lunga un bel caffè macchiato freddo, ma lo accetto riconoscente. Rimaniamo qualche secondo in silenzio a sorseggiare il the bollente, come ad assaporare il momento in cui le carte sono ancora coperte. "Probabilmente ti starai domandando come mai, nonostante l'intero paese abbia deciso di non volere avere nulla a che fare con te, ti abbia offerto di rimanere qui", inizia lentamente, assaporando ogni singola parola come cercando di prendere tempo. "Si, in effetti è così", rispondo io sinceramente, facendole affiorare un lievissimo sorriso. "Innanzitutto mi presento: mi chiamo Veronique Legrand", dice tendendomi la mano, che stringo delicatamente, come qualcosa di prezioso ma altrettanto fragile, "probabilmente il mio cognome non ti dice nulla, ma è molto vicino ad un'altro che hai sentito di recente. Mi riferisco a Roux, Philippe Roux. Phil è, o meglio era, l'unico fratello di mia madre, più giovane di lei di quattro anni". A questa notizia non posso fare a meno di sgranare gli occhi. Un luogo comune delle mie parti sostiene che il mondo è piccolo, e se il mondo è piccolo, infinitamente più piccolo è questo paesino in Canada. Tuttavia è davvero una bella coincidenza che la ragazza che tanto mi ha fatto battere il cuore in quella spiaggia, e che ora mi ha condotto qui, è la nipote di Philippe Roux. "Sai, quando c'è stata quella specie di riunione di paese, stamattina presto, ho subito deciso che ti avrei dato la possibilità di restare, se tu lo desiderassi", riprende subito, senza lasciarmi il tempo di dire le banalità che avevo in mente, "senza nessuna ragione in particolare. Ovviamente desidero aiutarti ad affrontare quel demone, e inizialmente pensavo che volessi aiutarti semplicemente per vendetta. Io ero molto piccola, e sebbene non ricordi quasi per nulla lo zio Phil, il dolore della sua perdita ha avuto un'eco lungo fino ad oggi. Fino a domani, come direbbe mia madre. Tuttavia non è solo per vendetta che desidero aiutarti". Le sue parole smorzano il mio respiro e aumentano i battiti del mio cuore come una dichiarazione d'amore. Rimane in silenzio ad osservarmi enigmatica con i suoi grandi occhi castani, come a cercare insieme a me un significato a ciò che ha appena detto. "Come mai mi aiuti, allora?", domando esitante, in cerca ma al contempo intimorito da ciò che potrebbe rispondere. "Te l'ho detto, non lo capisco nemmeno io", rispose in un sospiro. Nel frattempo finisco il mio the, e, vista la temperatura piuttosto mite, le propongo di sederci nella comoda sedia a dondolo che ho visto in veranda. Dalla quella comoda postazione posso vedere Buck che insegue abbaiando dei piccioni, sembra divertirsi un mondo. "Senti", mormora lei, arrossendo, "visto che siamo sulla stessa barca, credo sia giusto che mi racconti come mai ti trovi qui, non credi? Come posso aiutarti se non mi dici la verità?".  "Hai ragione", rispondo io, sentendomi un po' in colpa per non aver iniziato il discorso di mia iniziativa, "sappi però che è una storia lunga". "La giornata è ancora lunga", risponde lei sorridendo, "il demone non si è ancora fatto vivo e oggi il mio negozio è chiuso, abbiamo tutto il tempo che desideriamo". Sorridendo a mia volta inizio a raccontarle tutto, cercando senza riuscirci di essere il più lineare possibile. Le racconto del messaggio nella bottiglia, del tesoro, del mio lavoro frustrante e dei miei sogni dimenticati in un cassetto polveroso. Lentamente srotolo sotto i suoi occhi la lunga matassa che è la mia vita, stupendomi io stesso di quante cose avessi dimenticato. Anche lei si sbottona, parlandomi della sua passione per il disegno, del suo negozio di fiori e dei suoi che girano il mondo, cercando null'altro che una nuova meta. Restiamo così a parlare per ore, con l'impressione che, per quanto cerchiamo di essere concisi ed evitare discorsi inutili, il tempo non basterà mai per dire tutto ciò che vogliamo. Insieme troviamo un'intesa profonda e mistica, come due pezzi completamente diversi del puzzle del mondo che tuttavia si incastrano alla perfezione. Torniamo al discorso iniziale che ormai tramonta il giorno nel piccolo giardino dell'eden. "Ora che sai tutta la mia storia, sei ancora sicura di volermi aiutare?", domando guardandola negli occhi, cercando una risposta intelligente ad una domanda che, col senno di poi, era veramente stupida. "Ricapitolando", rispose lei seria, "tu sei venuto qui, dall'altra parte del mondo, perché hai trovato un messaggio in una bottiglia sulla spiaggia. Hai mollato tutto per un messaggio che potrebbe benissimo essere uno scherzo, oppure potrebbe aver navigato nell'oceano per anni prima di che lo trovassi. Tutto questo nonostante il pericolo di quel terribile demone.  Ti rendi conto che suona folle?", conclude infine con sguardo accigliato. "So che può sembrare folle", rispondo abbassando lo sguardo, colpito nel vivo dalle sue parole, "ma non sono mai stato così convinto di qualcosa in vita mia. Tutto il resto non ha mai avuto senso, e ho dovuto realizzarlo appieno solo quando ho trovato quella bottiglia. Tornare alla mia vecchia vita, senza direzione e senza senso, mi spaventa molto di più di qualsiasi demone". Senza dire niente mi prende la mano e la stringe dolcemente, come a infondermi forza. "Dai, ora rientriamo, sta per fare buio", dice sorridendo, addolcita dalle mie parole, "ceniamo e poi dritti a dormire, domani sarà una lunga giornata, dovremo trovare un modo per farti arrivare su quell'isola" Prima di entrare riesco a scorgere, nonostante la scarsa luce, la sagoma del gentiluomo in piedi vicino al laghetto, che si toglie elegantemente il cappello in gesto di saluto. Senza che me ne fossi accorto, l'incubo è già iniziato. 

mercoledì 19 marzo 2014

Il messaggio nella bottiglia - settima parte

Photo by Seven94


Mi sveglio molto tardi stamattina, intontito. Il racconto del vecchio Jacques rimbomba nella mia testa come una nenia ipnotica, senza riuscire a prendere posto nel mondo reale ma rimanendo effimero, come nebbia. Mi stupisco nel trovare Buck addormentato vicino a me, accucciato vicino ai miei piedi, come non aveva mai fatto. E' come se avesse intuito il pericolo e abbia deciso di trascorrere il poco tempo che mi rimane il più vicino possibile. Lo accarezzo lievemente, per non svegliarlo. Improvvisamente sento un bussare sommesso alla porta della stanza, tanto flebile da farmi dubitare che effettivamente qualcuno abbia bussato. Tuttavia alla porta trovo il signor Hank a guardarsi i piedi. "Buongiorno", dice con voce flebile, "devo parlarti, hai voglia di scendere un minuto con me?". Per quel poco che lo conosco non avevo mai visto il vecchio Hank così cupo e spento, in genere era tutto pacche sulle spalle e allegria, ma non oggi. Non oggi che l'ombra è tornata su questo villaggio sperduto in Canada, silenziosamente ma non abbastanza per non farsi notare, e far sentire il suo gelo. Un gelo così implacabile che sembra congelare il tempo, tanto che ho l'impressione che mi ci voglia un secolo per seguire Hank nel piccolo corridoio dell'albergo, e poi giù per le scale. Ogni passo rimbomba cupo e vuoto in un ambiente dove la speranza è venuta meno. Il vecchio mi fa cenno di sedermi nella poltrona dove suole sedersi lui, la sera, a guardare i tanto amati film western, e inizia a proferire parole lente che non comprendo, sedendosi su una sedia accanto a me. "Come dice? Può ripetere per favore?", gli domando cercando di ritrovare lucidità. "Sai", inizia lui lentamente, senza mai guardarmi negli occhi, "anche se non li ancora conosciuti, ho una bella famiglia. Ho una brava moglie, dei figli, mio figlio Frank ha pure benedetto la nostra casa con due adorabili nipotini. Nel mio piccolo mondo c'è tanta gioia, e soddisfazione. Ho saputo quello che è successo ieri notte, ragazzo mio, è un paese piccolo e le voci girano. Capisci perché ti dico tutto questo? Ho il dovere di proteggere i miei cari, a qualunque costo. E' questo il compito di un uomo, ed è così in qualunque angolo di questo variegato mondo. Jacques ti ha raccontato di cosa è capace quel demonio, giusto? Capisci perché non posso più permetterti di rimanere in questo hotel? Farti rimanere qui significherebbe che anche lui, prima o poi, verrà qui. In queste mura, dove di giorno giocano i bambini e mia moglie prepara loro dei biscotti, dove di notte dormiamo sonni sereni, sicuri che queste quattro mura bastino a tenerci al riparo dal caos del mondo. Non posso permettergli di mettere piede qui, ragazzo mio. Anche a costo di doverti abbandonare al tuo destino. Sei un bravo ragazzo, e mi piacerebbe poter fare qualcosa, ma come potrei? Sono solo un vecchio, e da quando si prese Philippe, tanti anni fa, nessuno è mai riuscito a fermarlo." Detto ciò, dopo aver parlato a lungo, finalmente trova il coraggio di alzare lo sguardo sul mio. Non immagino che faccia possa avere io in questo momento, ma dal guizzo di dolore nei suoi occhi dopo averla vista credo deve essere terribile. In realtà non ho ancora realizzato il pieno significato delle sue parole, mi viene da sorridere, come ad uno scherzo ben riuscito. Nessuno scherzo: questo mi sta cacciando davvero in mezzo ad una strada. Lo guardo un po' disperato, un po' sperando fino all'ultimo che si tratti davvero di uno scherzo. "Davvero vuole che me ne vada? Dove potrei andare, non ci ha pensato? Mi manda a morire in mezzo ad una strada, senza nemmeno tentare di salvarmi la vita?, dico quasi urlando, col gelo della disperazione che circonda il mio corpo come acqua gelata, tanto che non riesco quasi a respirare. Come a pentirsi di un errore, distoglie lo sguardo dal mio, spaventato dalla morte riflessa sul mio volto. "Mi dispiace, ragazzo mio", mormora mogio, quasi un sussurro, "ho parlato con gli altri del paese. Nessuno vuole avere a che fare con quel mostro, e di conseguenza con te. Nessuno ti offrirà un tetto, né da mangiare, nemmeno un goccio d'acqua avrai da noi. Ti sembrerà crudele, ma è per il tuo bene. Per obbligarti a tornare a casa e a salvarti, ad andare il più lontano possibile da questo paese e dall'incubo che vi si nasconde. E' la prima volta che prende di mira un forestiero, da quel che ne sappiamo, e non si sa come possa reagire. Forse ti seguirà, forse no. Ma stai sicuro che rimanendo qui farai una brutta fine, sicuro come l'immenso oceano che puoi mettere tra te e lui. Fuggi, figliolo, fuggi e non voltarti più indietro, qualunque sia il motivo che ti ha portato qui non può valere più della tua vita." Non riesco nemmeno a rispondergli dopo queste parole, non immaginavo che potessero provare un terrore così grande per un'ombra. "Voglio darti una cosa" aggiunse infine, alzandosi. Camminando a passi lenti e pesanti raggiunse una vetrinetta vicino al divano e ne estrae un piccolo scrigno di velluto, ingiallito dal tempo. Aprendola con riverenza ne tira fuori una medaglia militare al valore e me la porge solennemente. "Questa è la medaglia di guerra di mio padre. Gliela diedero perché, nonostante tutto, tornò vivo a casa. Nonostante le bombe, nonostante i tedeschi, nonostante l'odio e soprattutto la paura che impregnava ogni singolo soldato. Credo sia giusto che ce l'abbia tu, come augurio di buona fortuna, e per farti capire l'insegnamento di mio padre: non c'è disonore nel tornare a casa vivi. Oltre a proteggere la propria famiglia un uomo ha il preciso compito di tornare ai propri cari, quando è tutto finito. Anche prima, se è una guerra insensata. Fallo per me, ma soprattutto per te stesso: tornatene a casa e vivi una vita lunga e, se sei fortunato, anche felice. Innamorati di una donna e sposala, fate dei figli, trovati un lavoro che ti soddisfi e che ti faccia sentire realizzato, vai a ballare il sabato sera e a messa la domenica. Scopri il mondo, rimani in contatto coi tuoi vecchi amici e non avere mai paura di fartene di nuovi. Goditi la vita e, un giorno, ricordati di questo paese e dell'avventura che ci avrai vissuto, e allora la racconterai ai tuoi figli come una favola, e nemmeno tu sarai certo che sia avvenuto realmente." Pronunciando le ultime parole con un sorriso, mi appunta la medaglia sul petto, salutandomi poi con una calorosa stretta di mano. Vado su in camera a preparare la valigia e trovo Buck che mi aspetta sveglio, come se avesse intuito che era ora di andarcene. Preparo la valigia sovrappensiero, sorridendo a mia volta al futuro che il vecchio Hank mi ha come predetto, e in pochi minuti sono fuori dall'albergo. Sospiro malinconico e, allontanandomi verso il paese, sento lo sguardo di Hank che mi sbircia furtivo da dietro le tende, come a volersi assicurare che me ne stia andando davvero. Per il momento ho solo voglia di rilassarmi un po', per cui mi dirigo verso la spiaggia, a vedere per l'ultima volta l'oceano burrascoso.  Le nuvole sembrano iniziare a diradarsi, perlomeno sul paese, e qualche raggio di sole furtivo riesce ad intrufolarsi per illuminare cose apparentemente a caso, ma per essere sotto i riflettori del cielo devono essere davvero importanti, per qualche motivo. L'intero paese sembra trattenere il respiro aspettando che me ne vada, non c'è un'anima viva per le strade, solo io e Buck. Arrivato all'oceano la spiaggia è deserta e grigia, la sua sola vista non fa che alimentare la mia malinconia, come acqua in un mulino. La tempesta impervia ancora al largo, pare che la sua rabbia ne abbia ancora per giorni prima di placarsi dolcemente. Giorni che non ho. Il tesoro e lì da qualche parte, lontano all'orizzonte, mi sembra perfino di poterlo accarezzare se allungo la mano. Ma è solo un'illusione. Guardando la realtà dei fatti, non posso aspettare che finisca la tempesta senza un posto dove dormire, senza qualcosa da mangiare e, soprattutto, da bere. Potrei essere morto prima che giunga quel momento. Devo tornare a casa, è inevitabile. Tornare al mio squallido lavoro, alla mia vita monotona, ad un'esistenza ben più grigia di questa spiaggia solitaria. Nulla potrà mai essere più difficile che perdere la luce dopo averla intravista, anche solo per un istante. Il peso di questi pensieri rende le mie gambe molli e la testa pesante, mi siedo sulla sabbia umida in cerca di un qualche sollievo. Buck gironzola qui intorno, e mentre lo osservo non mi accorgo del suo arrivo. E' lei, la ragazza che disegnava sulla spiaggia, che ha fatto compiere un infinito viaggio al mio cuore, dalle stelle andata e ritorno. Mi fissa per un lungo istante con sguardo corrucciato, come a prendere una decisione importante. "Sappiamo tutti che non sei qui per il motivo che hai detto, potevi inventartene una migliore", mormora con voce forzatamente seria e dura, ma che non risulta per niente convincente, "hai un buon motivo per essere qui?" La guardo con occhi sgranati, colpito come da uno schiaffo da quella che suona come un'accusa, un interrogatorio. "Immaginavo che nessuno se la sarebbe bevuta, la storia del lavoro. Certo che ho un buon motivo, non ho fatto tutta questa strada per dormire nell'hotel di Hank", dichiaro sornione, cercando di non apparire sarcastico o peggio. "Se ti interessa te ne posso parlare, tanto ormai non ha più importanza. Immagino tu sappia bene che non sono più gradito, da queste parti" aggiungo poi, rendendomi conto invece che il mio tono è decisamente malinconico. Sembra essere servito a qualcosa tuttavia, perché si intenerisce e un lieve sorriso le illumina il viso, lieve ma percettibile come una brezza estiva. "Sono proprio curiosa di sentire la tua storia, straniero, ma sappi che ha ancora la stessa importanza di quando sei arrivato. Non farti strane idee, ma puoi venire a stare da me, abbiamo molto di cui parlare". Detto questo richiamo Buck e la seguo ovunque voglia portarmi, come un marinaio perduto segue le stelle che lo riporteranno a casa.  

giovedì 27 febbraio 2014

Il messaggio nella bottiglia - sesta parte

Photo by Fineart America


Dopo aver tracannato avidamente la prima delle due pinte di birra scura e torbida, l'uomo rimane a lungo a fissarmi pensieroso, come ad imprimere nella memoria ogni piccolo particolare della mia persona. Poi, sospirando, allunga la mano e mormora, con voce impastata dall'alcool: "innanzitutto credo sia buona etichetta che io mi presenti. Mi chiamo Jacques Fabre, mozzo. Il piacere, temo, non è né mio né tuo". Gli stringo timidamente la mano vergognandomi di quanto sia più grossa e forte della mia, sebbene la sua stretta sia flebile e debole come il batter d'ali di una falena morente, riflesso forse del suo animo spento. Inizio a sorseggiare lentamente la mia birra, fa davvero schifo. Avevo bisogno di qualcosa di caldo, ma non era certo quello che intendevo. Non c'è niente di peggio di una birra calda: è la perdita di ogni tipo di civiltà e cultura, di ogni valore morale, peggio del cannibalismo e dell'anarchia. Un nuovo sorso di birra e la lingua di Jacques si sguinzaglia come un cane affamato di parole, e, soprattutto, di attenzione. "Vedi, ragazzo mio, quando ero giovane ero mozzo nella barca di un pescatore del paese, un vecchio ubriacone che chiamavamo ironicamente "capitano Achab". Il suo vero nome non lo ricordava nessuno, giravano voci che perfino sua moglie lo chiamasse così. Pescavamo tutto quello che riuscivamo a pescare, non eravamo certo razzisti quando si trattava di mangiare. A quei tempi conobbi quello che sarebbe diventato il mio più caro amico, Philippe Roux. Lavorava come me nel peschereccio del "capitano Achab", ma ben presto, insoddisfatto e stanco delle angherie del capitano, mandò lui e tutti i pesci dell'atlantico al diavolo per dedicarsi alla sua vocazione, la contabilità. Molti di noi, me compreso, ritenevano fosse una vocazione squallida e triste, che razza di piacere si poteva trovare nei conti? Poi vedemmo la sua espressione quando chiudeva un bilancio e i conti quadravano, o quando un suo collega gli chiedeva una mano, e allora lui sembrava un'altra persona, fiera e solenne come l'oceano, e allora capimmo, e lo rispettammo. Fu qualche mese dopo che incontrò quel demonio. Ci eravamo persi un po' di vista, come è facile quando si prendono strade così divergenti, ma eravamo sempre ottimi amici, appena potevamo ci facevamo una birra insieme e mi raccontava di mondi aldilà della mia concezione, dove ogni cosa è un'idea, un numero, e tutto sembra irreale. Quello era il suo mondo, ed io ero forse l'unico a cui permetteva di entrarci. La gente spesso equivocava la nostra amicizia, voci maligne e di scherno circolavano di bocca in bocca come un virus, ma non ci ho mai dato peso. In questo paese la gente trova sempre qualcosa su cui ricamare e mormorare, e se non lo trova, lo inventa. Tuttavia, col tempo, continuammo lentamente ma inesorabilmente a perderci di vista. Ci vedevamo sempre meno, e quando succedeva non era più come una volta, ci limitavamo a parlare del più e del meno, non entravo più nel suo mondo dei numeri. Finché non ci vedemmo più. Naturalmente ne ero dispiaciuto, ma sembrava che comunque lui stesse bene, perciò non me ne preoccupai molto. Non potevo nemmeno immaginare che razza di incubo era diventata la sua vita. Lo scoprì solo quando era ormai troppo tardi, e non potrò mai perdonarmelo. Ciò che ti racconterò ora è solo una ricostruzione, nessuno sa precisamente ciò che successe realmente, soprattutto alla fine. Tuttavia voglio che ascolti attentamente, ti sembrerà assurdo ma devo metterti in guardia." Detto ciò, dopo aver parlato a lungo, bevve in un sorso la seconda pinta, come se avesse bisogno di carburante per continuare ad andare avanti. Un giovane si avvicina al tavolo e mi fissa con occhi increduli, fa per dire qualcosa ma Jacques lo zittisce subito con un brusco gesto della mano, e il giovane torna da dove era venuto. Guardandomi intorno noto che ognuno dei presenti mi lancia occhiate furtive, nei loro occhi scorgo una paura ancestrale, antica come l'uomo. Scolata ingordamente l'ultima pinta, l'uomo si asciuga con la manica la folta barba grigia, ingiallita a tratti dal fumo, e inizia a raccontare. "Tutto quello che ti racconto, come ti dicevo, è solo una ricostruzione a posteriori, l'unica testimonianza di ciò che accadde sono gli scritti paranoici di Phil, che tenne un diario della piega assurda che prese la sua vita. Tutto iniziò un giorno di primavera, quando ogni cosa tende a rinascere, compreso il male. Una sera, rincasando tardi da una serata di bisboccia al bar, lo vide. Viveva in uno di quei piccoli condomini alla periferia del paese, all'epoca appena costruito, e per entrare nel suo appartamento doveva aprire tre porte: il cancello esterno, quello interno, e infine la porta di casa. Aprendo il primo cancello, che dava accesso ad un piccolo cortile antistante l'edificio, lo trovò stranamente aperto. Non che ci fossero delinquenza o episodi di furto, ma quel cancello era sempre chiuso. Sempre. Tranne quella notte. Non ci fece molto caso sul momento, dopotutto era bello sbronzo, tanto che probabilmente non avrebbe notato nulla di strano nemmeno se avesse trovato il palazzo raso al suolo. Entrando lo vide, dicevo, un gentiluomo sulla settantina, che indossava un elegante frac nero sotto un lungo soprabito, con tanto di bombetta e bastone da passeggio. Lo stesso che hai visto tu stanotte. Sulle prime si spaventò per quell'incontro, cosa diavolo poteva starci lì a fare quel tizio stravagante, in piena notte? Tuttavia, i suoi modi impeccabili e la sua squisita gentilezza lo rassicurarono, così dopo aver scambiato qualche convenevole sul tempo e l'andamento dell'economia, cosa che a Phil stava molto a cuore, gli augurò una buonanotte e si congedò. Andò avanti così per diversi giorni, ogni notte trovava il cancello aperto e il gentiluomo all'interno. Qualche volta, scrisse nel diario, cercò di parlarne coi vicini, ma tutti giuravano di non aver sentito né visto nessuno, chiunque fosse quell'uomo si mostrava solo a lui. Fosse stato chiunque altro avrebbe chiamato la polizia, ma sentiva di non riuscire a cacciare in alcun modo quel gentiluomo così squisitamente cortese. Era come se, ammaliato da qualche stregoneria, non potesse muovergli alcun tipo di violenza o scortesia. Così non fece nulla. Dopo qualche giorno, tuttavia, finalmente trovò il cancello chiuso, ed il misterioso estraneo sparito. Si sentì stranamente sollevato, finché non giunse al secondo cancello, di accesso all'atrio e alle scale. Lo trovò aperto. Entrando terrorizzato trovò il gentiluomo che se ne stava lì al buio e per poco non gli prese un colpo. Lui, notando il suo spavento, se ne preoccupò subito, rassicurandolo con fare affabile di non essere un brigante da quattro soldi. In effetti non lo è, qualunque cosa sia si tratta di qualcosa di ben più terribile e pericoloso. Anche questa situazione durò qualche giorno, e fu in quel periodo che il mio amico iniziò a isolarsi da tutto e da tutti, come un elefante che si allontana dal branco quando sente che la morte gli è vicina. Iniziò a bere molto di più delle solite due pinte con gli amici, ossessionato da quell'uomo che, comunque, non era in grado di cacciare, e che si mostrava esclusivamente a lui. Una sera era così ubriaco che il gentiluomo dovette aiutarlo a salire le scale. Non ne parlò con nessuno, nemmeno con me, e fu in quei giorni che iniziò il diario di quei strani fatti. La sua paranoia aumentava di giorno in giorno, a volte non voleva nemmeno tornare a casa e passava la notte su qualche panchina. Al lavoro iniziarono a preoccuparsi del suo stato di salute, stanco e incolto com'era, come una bestia selvatica. Finché, una notte, trovò anche il secondo cancello chiuso, e l'uomo sparito. Salendo le scale e arrivando alla porta del suo appartamento la trovò aperta. Sentì, a quella scoperta, come se la falce della morte fosse puntata al suo collo, pronta a decapitarlo. I primi due cancelli potevano essere stati dimenticati aperti da qualche inquilino sbadato, ma quella no, era certo di averla chiusa. E tale doveva rimanere. Esaminando la serratura non trovò alcun segno di forzatura o manomissione, funzionava perfettamente, era come se qualcuno avesse accesso al suo mondo metafisico delle idee e dei numero, e in quel mondo avesse manomesso l'idea della sua serratura. Era sempre la solita serratura, perfettamente funzionante, e al contempo non lo era più. Come se avesse cancellato la sua qualità di essere una serratura e l'avesse resa solo un pezzo inutile di ferro. Una serratura annichilita, umiliata e imbrogliata. Tale sembrava essere il potere del gentiluomo. Da quel momento in poi sappiamo ben poco di ciò che ha vissuto. Pare che in casa non ci fu traccia del misterioso gentiluomo, o piuttosto di quel terribile demonio quale si rivelò. Phil visse gli ultimi giorni nel terrore più assoluto, senza più uscire di casa, conscio che ogni minima distrazione sarebbe potuta essere fatale. Non dormiva e non mangiava, non desiderando altro che quell'uomo fosse venuto e l'incubo avesse fine. Le ultime pagine del diario sono solo un ammasso di frasi sconnesse e paranoiche, scritte senza nessuna logica, poi si interrompono di colpo. Nessuno sa che fine abbia fatto, né la polizia l'ha mai scoperto dopo lunghissime indagini, fino a dare Phil per morto. C'è chi dice che quel gentiluomo in realtà fosse un alieno, e che l'abbia portato sul suo pianeta. Chi dice che fosse un vampiro, e ora il vecchio Phil succhi il sangue alle prostitute in qualche squallido sobborgo, beccandosi un sacco di malattie. Chi semplicemente dice che fosse impazzito per il troppo lavoro, e che ora faccia il santone in qualche setta religiosa. Chi può dirlo? Tuttavia, da allora, ogni tanto sparisce qualcuno, dicendo di aver visto lo stesso uomo che hai visto tu stanotte. Nessuno finora, nemmeno la polizia, l'esercito o la Santa Sede, ha mai potuto fare qualcosa per fermare quell'uomo evanescente e inafferrabile come nebbia. Non so cosa ti abbia portato qui, forestiero, ma dammi retta: scappa, corri lontano, tornatene da dove sei venuto. Forse, se metti un oceano tra te e lui, riuscirai a sfuggirgli. Forse".