martedì 10 giugno 2014

Rabbia di vetro

"Loneliness" by Ahmed Law


La donna di mezza età, che da quando ho memoria si prende cura di me e che a rigor di logica dovrei chiamare mamma, mi chiama Toby. Così come mi chiama suo marito, o papà, e i loro figli. O fratelli. Perfino il cagnolino, un chiassoso chihuahua la cui mole è inversamente proporzionale alla sua aggressività, sembra voler imitare i padroni e, in un patetico tentativo di compiacerli, sembra scandire coi suoi acuti latrati il nome Toby. Sentirmi continuamente appellare con quel nome, senza che nessuno mi abbia mai chiesto un parere al riguardo, è la seconda voce in ordine di gravità nella lista delle umiliazioni che mi tocca subire. Spesso mi domando come mi avesse chiamato mia madre, in origine. Thomas, ad esempio, sarebbe stato proprio un bel nome. Credo di avere proprio una faccia da Thomas, come hanno potuto compiere l'errore madornale di chiamarmi Toby? Non riesco a ricordare come mai non sono rimasto con la mia vera madre, cosa le sia successo, e perché invece mi ritrovo da tempo immemore con questa famiglia che ha deciso che il mio nome è Toby. Mormorii che a tratti sono riuscito a cogliere nel tempo parlano di un altro fratello che un tempo viveva nella mia stanza. Non sono mai riuscito a capire cosa gli sia successo, i miei pseudo genitori sono molto attenti a non lasciarsi sfuggire notizie al riguardo. Questo fantomatico fratello scomparso è stata la mia ossessione per moltissimo tempo. Ne ho cercato le tracce in ogni angolo della stanza, qualcosa che possa rivelarmi che qualcuno sia stato qui prima di me. Invano. Ma ormai non ha più importanza. Nulla ha più importanza. Poiché stanotte li ucciderò. Questo a causa della prima voce nella famosa lista delle umiliazioni che questa famiglia mi infligge. La solitudine. Ogni giorno li vedo uscire a vivere la propria vita, ognuno con le proprie gioie e i propri dolori. I miei fratelli vanno a scuola, e ogni tanto si innamorano. Solo ogni tanto. Hanno dei buoni amici che vengono spesso in casa, principalmente per godere tutti insieme delle gioie della nuova consolle per videogiochi. Anche i miei genitori hanno una bella vita sociale: i loro colleghi di lavoro sono persone simpatiche e alla mano e spesso sono ospiti per cena a casa nostra. Fanno anche delle belle vacanze insieme, figli al seguito. Quasi tutti almeno, poiché per me non c'è posto in tutto ciò. Non posso uscire dalla mia stanza. Può sembrare strano, ma sono letteralmente prigioniero in una strana, impenetrabile barriera che mi impedisce di uscire. Per molto tempo ho provato a infrangerla, a eluderla, aggirarla, ma non è servito ad altro che causarmi lividi e ferite. Col tempo mi sono rassegnato. Mi calano il cibo dall'alto, dove la barriera sembra non esserci. Per i miei bisogni vi lascio immaginare. Rinchiuso nella mia stanza sono costretto a vedere la loro felicità, e non esiste dolore peggiore. Fossero infelici anche loro potrebbe anche starmi bene. Mal comune mezzo gaudio, giusto? Probabilmente ne avrei anche compassione, e con la consapevolezza che il dolore è una condizione comune a tutti non mi sentirei solo.  Invece lo sono sempre stato. Li vedo tornare dalle vacanze, abbronzati ed esausti, con quella luce negli occhi di chi ha vissuto ogni momento intensamente, forse perfino troppo. Li osservo festeggiare il sedicesimo compleanno di mio fratello maggiore, e vedo la sua euforia nel scoprire cosa nascondeva il misterioso pacchetto incartato ad arte che era il suo regalo: le chiavi della sua prima auto. Li vedo, e basta. Loro mi vedono a malapena, presi dalla danza perpetua che rappresenta le loro intere esistenze, e non mi ascoltano per nulla. Ogni tanto provo a parlare loro, a dire qualcosa, anche di stupido, ma è come se parlassi un'altra lingua, come se dicessi cose che non sono in grado di concepire. Ho provato a lasciare che il tempo cambiasse le cose, sarà solo un periodo mi dicevo, passerà. Non ha cambiato nulla. Il tempo non cambia mai nulla da solo, il lento e costante processo di maturazione è tutto frutto del nostro operato. Così ho deciso di ucciderli. Questo parecchio tempo fa. Nel frattempo mi sono tenuto in forma, facendo molti giri della stanza per allenarmi. Ho programmato come e quando li avrei uccisi tutti, perfino il cane. Il quando, ormai, è stasera. Il come è presto detto: a notte fonda prenderò la rincorsa, sfruttandola per saltare oltre la barriera e uscire finalmente dalla stanza, per la prima volta in vita mia. Poi andrò nelle loro stanze e li soffocherò con un cuscino. Oppure taglierei loro la gola con un coltello. Semplice e veloce. Infine uscirò da questa casa e troverò la mia strada, e la mia felicità. Nel frattempo riposo, concedendomi un breve sonno ristoratore, in attesa che giunga la notte. Riapro gli occhi nell'oscurità avvolgente della notte. Finalmente il momento è arrivato. Mi domando che espressione avranno mentre si renderanno conto che Toby, il figlio dimenticato, si sta prendendo le loro felici vite. Saranno costretti ad accorgersi di me, a preoccuparsi, e a temermi. Mi prendo la mia rivincita, e la mia libertà. Determinato prendo la rincorsa e salto la maledetta barriera che mi ha tenuto prigioniero per tutta una vita. Attraversarla è uno shock tremendo: atterro rovinosamente su un fianco e mi rendo conto di non riuscire più a respirare. Probabilmente a causa di qualche costola fratturata, o chissà cosa. Il mio corpo si dimena nel tentativo di riprendere aria, ma non ottiene altro che sprecare ossigeno prezioso. Provo ad urlare, a dire qualcosa, ma non riesco ad emettere un suono. Morirò in silenzio come sono vissuto. Negli ultimi istanti della mia vita alcune immagini mi scorrono davanti agli occhi, sfocate come un sogno. Vedo mio fratello minore, all'epoca di pochi anni, restare a guardarmi per ore, estasiato da chissà cosa. Vedo mio padre tornare dal lavoro stanco e stressato, ma trovare comunque la forza di sorridermi. Vedo mia madre ridecorare interamente la mia stanza per renderla più accogliente. Tutta la rabbia, la frustrazione e il dolore si accomiatano imbarazzati dal mio corpo, come cocciuti messi di fronte ad un punto di vista diverso dal loro. Un senso di pace prende silenziosamente il loro posto e, nei miei ultimi istanti di vita, ho ancora la forza di sorridere. Come mio padre. Improvvisamente la luce si accende ed appare mia madre con un bicchiere di latte in mano. Evidentemente, nella felicità della sua vita perfetta, anche lei non riesce a dormire per chissà quali pensieri. Nessuno è immune al dolore, né esiste qualcuno in grado di salire abbastanza in alto per impedirgli di raggiungerlo. Tocca tutti, chi più chi meno, e mi rendo conto solo ora che, bene o male, siamo tutti sulla stessa barca.   Mi vede e spaventata corre da me, poggiando il bicchiere di latte su un mobile. Cingendomi con le mani mi solleva con estrema facilità, facendomi stupire, con l'ultimo barlume di coscienza, della sua forza inumana. Sollevandomi urla qualcosa che non riesco a cogliere, qualcosa che suona come: "Caro, anche questo pesce rosso è saltato fuori dalla sua boccia, come quello vecchio. Non credi che dovremmo metterci un coperchio?". Plunf.

1 commento:

  1. Eheheh grazie mille, non è stato facile non far capire fino all'ultimo la verità, ma sono soddisfatto che il risultato sia buono :) grazie mille! Arriverà presto, se non in settimana sicuramente entro la prossima, ciao! :)

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