L'alba dell'ultimo giorno prima della
partenza mi viene incontro a mezzogiorno, quando i miei occhi spenti si
schiudono nella penombra della stanza. Adesso che posso contare le ore che
rimangono percepisco il mio corpo e il mio animo come un guscio vuoto, privo di
emozioni e pensieri. Potrebbe sembrare la classica calma prima della tempesta,
ma sento che è qualcosa di più complesso, e al contempo basilare e naturale:
forse è un primo accenno di ciò che avverrà presto. La morte, il nulla,
scomparire. La percepisco echeggiarmi dentro, non spaventosa, dolorosa o
fredda. Mi appare piuttosto come una malinconica e immobile assenza, come il
binario della stazione dopo che il treno della propria amata è sparito
all'orizzonte. Rimango qualche istante coricato a fissare, senza guardarlo, il
soffitto della stanza, scavando e ricercando dentro di me la luce della
felicità provata appena ieri, senza trovarla. Il guscio duro e cavo all'interno
del mio cuore ostacola la mia ricerca, come se i sentimenti e le emozioni del mondo
dei vivi fossero ormai precluse a me che, in parte, non vi appartengo più. Sono
in bilico tra i due mondi, e ho assolutamente bisogno che qualcosa, dal mondo
dei vivi, mi trascini con forza dall'altra parte. Un'ancora di salvezza.
Improvvisamente sento il rigido guscio interiore incrinarsi sotto la spinta di
qualcosa di immensamente potente che spinge dall'interno, come un pulcino che
becca con forza il guscio per poter, finalmente, venire alla luce, e
oltrepassare lo strano limbo tra i due mondi nel quale mi trovo anche io. Finalmente
erompe, sbriciolando il guscio che stringeva il mio animo. Nella mia mente
affiora il viso di Veronique, il suo sorriso, la sua risata, rompendo le catene
del mio amore e sciogliendo il gelo che rendeva sterile e arido il mio cuore. Al
suo seguito, come una lunga catena di persone che si tengono per mano, si
susseguono una miriade di immagini e colori fantasmagorici, ricordi della mia
gioventù, il volto di amici perduti col tempo, il mio maestro. L'altalena dove
giocavo da piccolo, innumerevoli pomeriggi d'estate senza una nuvola a creare
pensieri. Tante piccole luci che, viste da più lontano, ne formano una più
grande e potente: la vita. Nuova speranza e vitalità pervade ogni cellula del
mio corpo, spargendosi come spore di un soffione dalla cavità toracica dove
prima risiedeva quel misterioso guscio. Incredulo ed euforico, mi alzo dal
letto e mi cambio in fretta, indossando abiti puliti che odorano lievemente di
sapone casereccio. Mi dirigo in cucina quasi correndo, determinato a cavare
qualsiasi informazione utile dal diario di Philippe, anche a costo di usare la
forza. Che gli piaccia o meno, sopravvivrò. Arrivato in cucina e preso il
diario, tuttavia, il pensiero di Buck fuori da due giorni mi attraversa la
mente come un fulmine, per cui decido di andare da lui. Giunto alla porta di
casa la trovo aperta. Veronique, uscendo stamane, non può certo aver
dimenticato la porta aperta. Tuttavia lo è, una verità così evidente e pesante
da farmi cedere le gambe. Voltandomi lentamente scorgo, con la coda
dell'occhio, il gentiluomo dignitosamente ritto in salotto. Nonostante ci siano
un comodo divano e una ancor più comoda poltrona lui rimane in piedi, serio e
ligio al dovere come una guardia reale. Per la prima volta decido di rivolgergli
parola. "E' venuto a prendermi? E' già arrivato il momento, ora che ha
aperto l'ultima porta?". Lui, stupito dalla mia domanda a bruciapelo,
sgrana gli occhi come colpito da una secchiata di acqua fresca. "No, no,
non è ancora giunto il momento. Rimane ancora una porta", risponde con un
sorriso affabile, come un passante gentile a cui si chiede indicazioni. Le sue
parole, tuttavia, non fanno altro che creare altri dilemmi, non risolvono
nulla. Tuttavia mi concedono altro tempo, ed è quello che conta. Saluto il
gentiluomo con un gesto della mano ed esco fuori, diario alla mano. Trascorro
l'intera mattinata con Buck, cosa che sembra renderlo felice. Deve aver sentito
la mia mancanza, e non posso fare a meno di sentirmi un po' in colpa. Ogni
tanto leggo le pagine del diario, ormai mancano solo poche pagine per finirlo e
non ho ancora trovato qualche informazione utile. Nonostante tutto, la speranza
che pervade ogni fibra del mio corpo non mi fa preoccupare granché. Prima o poi
troverò qualcosa, poco ma sicuro. Per pranzo Veronique fa una breve comparsata,
mangiamo insieme delle cotolette di pollo con insalata, e parliamo del più e
del meno. Pare che entrambi vogliamo vivere questa giornata in maniera più
spensierata possibile. Mi confida che Jean è cotto di lei da quando erano
ragazzini, lo ha sempre saputo, come se ne sono accorti da tempo in paese.
L'unico che crede che sia il suo più grande segreto è lo stesso Jean, come se
non si rendesse conto di quanto sia evidente. Non si è mai dichiarato, forse
per consapevolezza di essere rifiutato, e a Veronique sta bene così, non gli ha
mai dato speranze dopotutto. Non posso fare a meno di sentirmi infastidito, e
al contempo rassicurato dal fatto che lei non ama quell'uomo, né nessun altro. Finito
di mangiare torna al suo negozio, cancellando ogni malinconia dal nostro saluto
sfiorandomi dolcemente le labbra con le sue, morbide e delicate. Quel singolo
bacio mi ancora maggiormente al mondo dei vivi, trasportandomi alle più alte vette
di euforia e felicità. Voglio vivere, vivere con lei, vivere per lei e grazie a
lei. Ritorno, con la mente immersa in pensieri di un futuro felice, sul diario
di Philippe, sedendomi sul prato vicino a Buck. Dopo un lauto pranzo a base di
terribile cibo per cani è sonnacchioso e indolente come un adolescente dopo la
scuola. Finalmente arrivo all'ultima pagina, dopo pagine e pagine di formule
cancellate con decisi tratti di biro e parole frammentarie e sconnesse. Vi trovo
una formula scritta in bella calligrafia, sottolineata più volte e incorniciata
con una greca molto semplice, come quelle che facevo da bambino. Sembra essere
importante, così la imprimo nella memoria come una fotografia, cercando in ogni
modo di mantenerla integra nella mia mente. E' una formula complessa e formata
da segni e caratteri a me sconosciuti, ma sento fin nel profondo del cuore che
è di vitale importanza, e questo basta a stamparla nella mia memoria in maniera
definitiva. Ora che ho finalmente finito di leggere il diario, posso ritenere
conclusa la mia preparazione, così decido di passare le ultime ore di questo
ormai soleggiato pomeriggio a giocare con Buck, spensierato. Mi sembra di
essere tornato bambino, in quegli infiniti pomeriggi estivi senza nuvole né
pensieri. Nessun pensiero. L'uomo che mi ucciderà è nel salotto di casa, io
volo alto nei cieli inesplorati della felicità. Intorno alle sette Veronique fa
ritorno a casa, e mi prepara una cena speciale, sostanziosa e deliziosa. Dopo
cena, come se ci attraesse inevitabilmente a sé, finiamo nel suo letto. Un
letto grande e morbido, forse fin troppo comodo per non addormentarcisi
dolcemente, ma con lei al mio fianco è impossibile non rimanere sveglio.
Iniziamo a baciarci, prima timidamente e esitanti (trovo che sia quasi miracoloso
che alla nostra età ormai matura si possa ancora essere timidi nell'intimità),
poi con più passione, ed euforia. I nostri corpi si avvicinano e si stringono,
quasi fossero due metà di una stessa mela che vogliono tornare un'unica cosa.
Era da moltissimo tempo che non entravo in intimità con una persona, e la mia
paura più grande era essere goffo e impacciato, sarebbe stata una vergogna
grandissima. Invece mi viene tutto spontaneo, naturale, come se fossi nato per
baciarla, e amarla. L'euforia del momento sta per trascinarci ad un'intimità
più profonda e completa, lei, sorridendo, mi ferma. "Dopo che sarai
tornato", sussurra dolcemente, baciandomi ancora. "Così hai un motivo
in più per tornare, no?" conclude sorridendo, illuminandomi ancora con la
bellezza del suo sorriso. Così ci addormentiamo, felici e finalmente uniti,
noncuranti del pericolo che dovrò affrontare domani, noncuranti di tutto.
L'universo si riduce in questo letto, e nulla al di fuori di esso esiste più.
Almeno per stanotte.
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