giovedì 9 gennaio 2014

Il messaggio nella bottiglia - Prima parte



Non sono mai stato un temerario, una di quelle persone che solleva la vita per le caviglie, la scuote e vede cosa ne viene giù. Le opportunità di cambiamento, le cosiddette buone occasioni, mi hanno sempre spaventato: per cercare un piccolo miglioramento si rischia di perdere tutto ciò che si ha. Tutto ciò che ho sempre cercato è una tranquilla, sicura stabilità: un lavoro normale, una casa normale e una vita normale, senza né alti né bassi, ma lineare. Per molti può sembrare monotona, o noiosa, ma nella mia piccola monotonia sono al sicuro, e niente potrebbe mai stravolgerla. Forse. Sono due giorni che guardo fisso la bottiglia trovata in spiaggia mentre portavo fuori il cane, come ogni giorno alle 6 e mezza in punto. Non è tanto la bottiglia a suscitare in me tanto interesse, e al contempo un forte timore riverenziale, purtroppo se ne trovano tante abbandonate sulle nostre belle spiagge. Ciò che mi interessa è il suo contenuto. Poiché al suo interno ho trovato un messaggio, come nei film. Un messaggio molto conciso, e in molte parti illeggibile, ma quel poco che ho letto è bastato a far crollare tutta la stabilità del mio mondo, il lavoro, la casa, tutto. Il messaggio, per quel che si può leggere, recita: "naufragato in un'isola sperduta e disabitata, alle coordinate  33°54′59″N 78°7′50″W. Trovato immenso tesoro sepolto in un pozzo, lo darò in ricompensa a chiunque mi porti via da qui." Firma e data sono illeggibili, come tante altre parti del messaggio. Ma quelle che ci sono bastano. Bastano a scuotermi, a scioccarmi, a farmi pensare e dubitare, seduto sulla mia poltrona a rimirare la bottiglia. Se la storia del tesoro è vera, quella ricchezza eliminerebbe gran parte della mia stabilità, o monotonia: non avrei più bisogno di lavorare, probabilmente comprerei una casa più grande, e magari qualcuno che badi al mio cane e lo porti fuori. La mia vita sociale e sentimentale potrebbero avere anche loro una scossa, non sarei più così solo, ma uscirei a divertirmi tutte le sere, e condividerei la mia fortuna con gli altri. Ho quarant'anni ormai e alla mia età non è più così facile cambiare, specialmente per me. Quando ero ragazzino vivevo nella convinzione che nulla della mia vita di quel periodo era destinato a durare: la scuola, gli amici, le lezioni di karate, di cui ero febbrilmente appassionato, presto o tardi avrebbero preso commiato dalla mia vita. E difatti fu così: la scuola finalmente finì, e mi resi conto solo diversi anni dopo di quanto non fosse poi così male. Gli amici si sposarono, dapprima un po' precocemente, a causa di gravidanze inaspettate e indesiderate,  poi con giusta cadenza, fino a che l'ultimo incallito scapolone si rassegnò a tirar su famiglia. Iniziarono a frequentarsi esclusivamente tra di loro, tra coppie sposate e magari con figli, e senza che me ne accorgessi mi ritrovai solo. Forse era giusto così. Perfino il karate, la mia grande passione, col tempo uscì dalla mia vita. Col lavoro, gli impegni, la stanchezza che ormai la sera faceva sì che passavo le serate a guardare programmi televisivi che annebbiavano il mio pensiero razionale, lentamente ma inesorabilmente iniziai a frequentare le lezioni sempre con minor frequenza, nonostante le esortazioni del mio maestro a non lasciarmi andare. Lasciarmi andare a cosa, poi? Non c'è mai stato niente che andasse effettivamente male, nella mia vita, semplicemente si era spento qualcosa in me, qualcosa che non si è più riacceso. A questi pensieri inizio a sudare freddo, e uno strano panico sgorga dal mio cuore come nera pece: è davvero così che voglio vivere? Senza né alti né bassi, né sorprese, né dolori ma neanche gioie? La bottiglia può essere la mia sola via di fuga da tutto questo, la mia buona occasione, e temo ormai l'ultima. Quante ne ho ignorate finora? Dopotutto cosa ho da perdere? Il mio squallido lavoro al call center, dove un ragazzino che potrebbe essere mio figlio mi sta col fiato sul collo per farmi vendere, e sorridere, ed essere convincente raggirando uno sconosciuto? Certo, non guadagno nemmeno male, uno stipendio che mi permettere di vivere in maniera dignitosa. Sempre che possa essere dignitoso subire una simile vessazione psicologica da dei ragazzini per quattro soldi. Loro sembrano sempre contenti del loro lavoro. Io, ora che ci penso, no. Alla mia casa non sono affezionato, è del tutto impersonale e non ho vissuto niente di significativo dentro le sue mura, giusto qualche sporadico flirt effimero come vapore.  Improvvisamente ho la precisa sensazione che non ci sia niente di importante nella mia vita, nessuno per cui valga la pena di restare, niente da cui non riuscirei a separarmi a cuor leggero. Credo che quando una persona realizza ciò non può rimanere indifferente. Vado in bagno senza un preciso motivo, e mi fisso a lungo allo specchio. Posso sembrare ancora un ragazzo, dopotutto, può darsi che una vita tranquilla e senza eccessi sia complice del mio aspetto ancora ingenuo. Credo sia arrivato il tempo di diventare un vero uomo e prendere in mano la mia vita. Così torno in salotto, smanioso di agire, senza tuttavia sapere cosa fare. Il mio sguardo ricade sulla bottiglia, e per qualche secondo mi ritrovo a fissarla con odio. Maledetta, dannatissima bottiglia! Fino a due giorni fa ero così tranquillo e beato nella mia monotonia, ed ora ogni mia certezza è venuta meno. Dalla bottiglia il mio sguardo passa al mio cane, Buck, che mi fissa accucciato nel suo morbido giaciglio. Ha una strana espressione, se così si può dire, dipinta sul muso: è come se avesse compreso quello che sto passando e stia cercando di dirmi che lui vuole restare al mio fianco, come sempre da più di sei anni ormai. Mi si strugge il cuore di fronte alla sua espressione di muto e disperato dolore. Buck è un labrador di sei anni e mezzo, sta con me da quando aveva poco più di due mesi. E' una storia banale in realtà, come si può dire in generale della mia vita: i cani di una coppia di amici avevano da poco avuto una cucciolata e loro non potevano badare a tutte quelle benedette creaturine, così una di loro, Buck, l'avevano affidata a me. Sulle prime ero piuttosto restio ad occuparmi di qualcuno che avrebbe avuto bisogno di tante attenzioni, o forse facevo solo finta. Quando me l'avevano messo tra le braccia ho capito che in realtà sarebbe stato lui ad occuparsi di me, a farmi sentire meno solo, a farmi tirare avanti in qualche modo. Da quel giorno vive a casa mia, rendendo la mia vita quantomeno sopportabile. Mi avvicino a lui e lo accarezzo forte, mormorando: "certo che vieni con me, stupidone!" Sembra tranquillizzarsi, e dopo qualche carezza si allontana tranquillo, andando in cucina senza un particolare motivo apparente. Sono ormai le 11 passate, e domani, essendo lunedì, dovrei andare al lavoro. Dovrei. La parola "dovrei" frulla nella mia mente come appunti gettati in una centrifuga: ci sono mille cose che potrei fare domani, e andare a lavoro diventa lentamente l'opzione più improbabile. Che so, potrei cambiare i mobili di casa, i mobili che ho mi sembrano improvvisamente grigi e tristi. Potrei dipingere, tele di mille colori, e non solo tele: pareti, oggetti, perfino l'automobile dipingerei, cancellando quarant'anni di grigiore. Potrei anche scrivere un libro, senza un particolare argomento o una trama, ma scrivendo quello che mi passa per la testa. Oppure potrei partire per andare a salvare il tizio della bottiglia, e ottenere un immenso tesoro. Ecco, questa mi suona bene. Entusiasta stappo uno spumante che riservavo per le occasioni speciali e ne bevo una lunga sorsata, ridendo come un idiota. Ero un idiota fino ad un minuto fa, che non ridevo mai, e non ero nemmeno capace di godermi la vita. L'alcool mi dà subito alla testa, non sono mai stato un gran bevitore e basta poco per rendermi alticcio. Ma va bene così. Molte grandi decisioni sono state prese così, ubriachi e folli. In preda all'entusiasmo corro al mio computer all'ultimo grido, costatomi un occhio della testa, per capire dove si trova l'isola in base alle coordinate. Immettendo le coordinate nel motore di ricerca indica una piccola isola al largo del Canada, sarà grande poco più di due o tre chilometri. Sono un po' deluso, mi aspettavo un'isola Caraibica dalla lussureggiante vegetazione, piena di fascino e mistero, invece non sembra essere 'sto granché. Pazienza, dopotutto quello che conta è il tesoro, dell'isola poco importa. Continuo a bere, l'entusiasmo cresce ma la testa inizia a ciondolare. Buck mi guarda con scetticismo dalla sua cuccia, come un genitore osserva il figlio mentre sta per commettere una bambinata. Il Canada non è certo dietro l'angolo, dovrò dare fondo a tutti i miei risparmi, e forse non basteranno. Magari posso vendere il computer, non ne ho certo bisogno, dopotutto. Chiunque tu sia, amico mio, aspettami: sto venendo a salvarti. 

2 commenti:

  1. " semplicemente si era spento qualcosa in me, qualcosa che non si è più riacceso." Molto carino il racconto! Mi ha fatto riflettere molto su me stessa. Grazie.

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  2. Grazie mille!! :) credo sia qualcosa che, chi più chi meno, sperimentiamo tutti, è normale dopotutto. Grazie a te, mi ha fatto molto piacere il tuo commento, spero che i prossimi capitoli ti piacciano! :)

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